Lettere (Sarpi)/Vol. II/129
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CXXIX. — A Giacomo Gillot.1
Soglio ricevere le lettere di costì dopo 15 o 16 giorni; ma la sua ultima dei 31 gennaio mi fu recapitata il dì primo del corrente. Ciò che le scrissi intorno alle potestà per le quali si amministra questo mondo e insieme il regno dei cieli, era stata per lo avanti una mia semplice opinione: ora che la vedo approvata da lei e confermata altresì con ragioni, diverrà pure una mia credenza. Ell’ha per me l’autorità di un intero teatro, e dei più numerosi.
Leggerò più attentamente la scrittura del signor Richer, che in tanta ristrettezza di tempo ho scorsa appena coll’occhio. Frattanto la prego di volerlo ringraziare e salutare in mio nome.
Non posso dissentire da lei per ciò che spetta al re della Gran Brettagna: egli ha dallo studio delle lettere guadagnato questo, cioè di non poter essere raggirato dagli scaltri; malattia di cui molti principi, con loro gran danno, furono travagliati. Egli però, per certa libidine dell’umano ingegno, è tratto a voler ostentare eccellenza nell’arte altrui, piuttosto che nella sua propria; e quindi, come sembra, antepone un gran dottore a un gran monarca. Diceva già Seneca: — Niuna cosa mi pare più impotente di una legge la quale comanda per via di premio, e non giunge a persuadere. — Ora, che mai direbbe, se avesse veduta una legge sorretta da un’apologia, e questa prolissa e presa dall’Apocalisse? L’autore nel libro Tortura Torti lo ammonì bene dopo il fatto: quelle cose che colla penna aveva intraprese, spingesse innanzi collo scettro; come a dire, se avesse scritto prima di lui: che col solo scettro operasse, lasciando stare agli altri la penna. Vedete quel Cesare, mentre arde e barcolla la Germania, e la sua casa sta per andare in rovina, spregiar l’arte del regnare e darsi l’aria di un grande astrologo!2 Ricordate Nerone, il quale, morendo, compativa al popolo romano, perchè perdeva un sì gran citarista! Una gran virtù si è il sapere, nella commedia del mondo, rappresentare la parte sua propria, ed astenersi dall’altrui.
Non potei peranche leggere tutto il libretto del signor Coeffetau:3 pochi fogli, e tra questi i primi, ne percorsi con fretta. Mi sorprese l’eleganza del parlare, ancorchè in lingua per me straniera; e per tal conto, io lo stimo grandemente. Quanto però alla modestia, ripeterei quello che nelle favole si dice fosse detto al gallo: — Tu bensì canti bene, ma razzoli male. — Pare che il Bellarmino si proponga di ingiuriare il re; ma costui (ch’è peggio assai) di schernirlo. Che cos’è di fatto, se non una irrisione, il dire al re: la Chiesa non aver mai armato i sudditi contro i re, nè mai aver teso loro insidie; come se quegli, delle istorie perito e consapevole delle cose che accaddero nel suo tempo, sia nondimeno per credere ciò che con tanta facondia vuol proclamarsi; cioè che a mezza notte il sole risplenda? Il Bellarmino non osò pronunziare la sua sentenza, per non offendere i principi italiani, e lo stesso re di Spagna; i quali sa bene aver sopportato a malincuore le cose che nella nostra controversia vennero sciorinate contro la dignità de’ principi: laonde egli vanta sibbene la potestà del papa sui principi eretici; ma convien guardarsi dal credere ch’egli ciò faccia per volerla negare sugli altri. Un autore gesuita non è mai da leggersi senza aver presente la dottrina dell’Ordine, anzi la professione che fanno di far uso continuo dell’equivoco e della restrizione mentale. E se vorrete por mente a ciò che già scrisse di Richeome,4 non mai crederete il Bellarmino autore di una sentenza così moderata, come quella di cui vuol farsi bello nell’Apologia. Questo dissi per concluderne, che se Ella notò specialmente que’ due luoghi dove conferma la potestà somma dei re, l’autore stesso se mai gli accada di correggersi in guisa che il suo vero pensiero spicchi fuori dagl’involucri delle parole, ci farà udire in quel libro stesso le cose più portentose.
E poichè siamo alle mani co’ Gesuiti, le dirò, quanto al Mariana, che mi sono altre volte maravigliato come uomini così prudenti abbiano posto a luce un libro di tal fatta, non punto meno empio di quello del Machiavelli.5 Ma dei sette trattati che la romana censura proscrisse, desidero ch’Ella sappia, altra essere di ciò la causa ed altro il pretesto. Il pretesto è, perchè nel Trattato della immortalità, fu ardito di difendere la sentenza de’ Gesuiti, de divino auxilio efficaci; come se ciò non fosse lecito, finchè la lite pende innanzi al pontefice: la causa vera però, perchè stabilì, contro il Baronio, l’andata di San Giacomo nella Spagna. È un nuovo arcano della curia romana, che il Baronio debba tenersi come un evangelista. La Inquisizione romana scrisse a tutti i suoi ministri per l’Italia, pongano ben mente che in qualunque materia non si pubblichi cosa alcuna contro il Baronio; e ciò mantengono religiosamente, perchè neppure, anche trattando delle cose de’ Gentili, sia mai lecito il contraddirlo.
Troppo l’ho trattenuta, come sedotto dalle attrattive dell’argomento, e immaginando quasi di favellarle di viva voce. La prego di scusare la mia importunità, e di avermi a lei obbligato per guisa, da dipendere più da lei che da me stesso. Prego Iddio che la mantenga sana lungamente, e a me doni forze e somministri occasioni, per le quali possa mostrarmele non inutile servitore. Stia sana.
- Di Venezia, li 2 marzo 1610.
Note
- ↑ Pubblicata, in latino, come sopra, pag. 11.
- ↑ La freccia, chi nol sapesse, è scagliata contro l’imperatore a quei dì regnante, Ridolfo II; il quale amando le scienze, e soprattutto l’astronomia, non andò esente dalle superstizioni del secolo, e lasciò infondersi da Ticone-Brahe la credenza nell’astrología giudiziaria. Peggio poi che, pei terrori che questa ispiravagli, si sequestrò in certa guisa dal mondo, ricusando di dare udienza a’ suoi ministri e fino agli ambasciatori stranieri. Le contese ch’egli ebbe per tutta la vita col suo fratello Mathias e con altri della famiglia, procedettero in gran parte dall’essergli stato predetto, che i suoi giorni verrebbero messi a pericolo da un principe del suo sangue.
- ↑ Il Sarpi latinizzava, o gli editori sconciavano quel nome in Coiffeta. Parlasi di Niccola Coeffetau, famoso teologo controversista di quel secolo, pieno di controversie. Era domenicano, ma il suo zelo gli fruttò la dignità episcopale, ed anche la nomina alla sede di Marsiglia. Mori, di soli 49 anni, nel 1623. Aveva scritto non solamente una Risposta al re della Gran Brettagna, ma altre eziandio contro il Duplessis-Mornay e contro Marcantonio De Dominis. Le sue opere sono ancora da altri lodate per dignità ed eleganza.
- ↑ Altro controversista, che vestì panni gesuitici.
- ↑ Si allude al famoso trattato di Giovanni Mariana di Talavera, che porta il titolo De rege et regis institutione, nel quale apertamente sostiene il regicidio e difende Giacomo Clement; onde fu censurato dalla Sorbona e condannato alle fiamme dal Parlamento di Parigi. Nel parlare del Machiavelli, si vede come qui il Sarpi segua le volgari opinioni. È, poi, deplorabile che un ingegno come quello del Mariana si facesse mancipio della setta lojolitica, giacchè la Storia di sua nazione, composta egualmente in latino e spagnuolo, ed altre sue opere, lo costituiscono tra i più eminenti pensatori e scrittori della Spagna.