Lettere (Sarpi)/Vol. I/83

LXXXIII. — Al medesimo

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LXXXIII. — Al medesimo
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LXXXIII. — A Giacomo Gillot.1


A questi due giorni ho aperto e letto in quattro o cinque luoghi l’opuscolo di Barclay, che V. S. m’ha inviato, coll’intendimento di dirgliene qualche cosa, e leggerlo e rileggerlo poi a mio bell’agio. In fatto di conoscenza di leggi e d’istorie, m’è parso che lo scrivente non vada per la maggiore. Ma soprattutto, ho maravigliato il giudizio di lui, che mentre discute i fatti per cavarne il diritto, sì è diligente e dà nel segno, da non sembrare soltanto giureconsulto, ma aggiustato filosofo. E’ ci ha molti fra voi di questa maniera scrittori: i nostri sono plagiari insipienti; contano i suffragi, non li pesano. Se mi vada a sangue il fare di cotesto autore, non accade il dire: lo mostrano le nostre sconciature. E perchè non crederò ch’Ella stessa così la pensi, essendo del numero di coloro che rifuggono dal brutto delitto d’adulazione? Farmi vederle addentro all’animo, e ivi scoprire tutti gli schietti pensamenti. Niuno [p. 275 modifica]che s’intenda d’antichità e di storia, ha negato il primato, anzi il principato dell’apostolica Sede. Quel ch’oggidì pretendono, non è l’esser primi, ma l’esser tutto; dacchè, ogni gerarchia annullata, qualsivoglia potere conferiscono ad uno solo. Coloro che opinarono potersi diradicare dalla Chiesa gli abusi coi mezzani temperamenti, somigliano, per mio avviso, a que’ medici ignoranti che, durando a causa morbifera, si confidano riuscire ad estirparne gli effetti. Sorgiva e fonte di tutti gli abusi non è la pienezza di potere, ma il suo soverchio ad esorbitanza; la quale tolta, fate conto che sia ritornata subito la pace nella Chiesa. Poichè il quotidiano accrescimento degl’inconvenienti s’impedirebbe; e quelli che già regnano, eliminata la causa, a breve andare si dileguerebbero. Barclay2 disdisse al papa l’autorità diretta e indiretta (nuova foggia di vocaboli) sui negozi temporali. A me cadde un tempo in mente di gittare a terra il fondamento e, al tempo stesso, rizzarne un altro, pel quale fosse guarentito ai principi il loro intervento legittimo nella Chiesa.

È fuori d’ogni dubitazione, che quegli cui fu commessa una giurisdizione, s’ebbe anco la potestà sugli altri atti necessari ad esercitarla e far fronte a chiunque volesse impacciarla. Ma a questa saldissima verità contrappongono, che i principi possono inceppare la giurisdizione da Dio accordata alla [p. 276 modifica]Chiesa, come di sovente incontra; e conchiudono che nella Chiesa dee dimorare la facoltà di tenere a segno i principi. E io, di rimando, così assalgo cotesta ragione, a cui sorreggesi l’edificio intero di loro ambizioso ingerimento. Dapprima, prova troppo; perocchè niuno rechi alla Chiesa maggior noia del diavolo, sul quale converrebbe menar buoni colpi di potestà coattiva per averne quiete, e più autorità ostentare che san Michele, il quale si contentò d’intonargli: A te comandi Iddio. Nego dipoi asseverantemente, che principe o potere di sorta possa vincerla sul ministero della Chiesa: portæ inferi non prævalebunt. Dalla stessa esperienza apparammo, che non valsero un tempo tiranni, nè per leggi nè per tormenti nè per morti nè per qual si fosse trovato, ad arrestare la fede; sì meglio contribuirono a propagarla. E che necessità può esservi d’abolire quel ch’è destinato a far servigio? I ministri della Chiesa possederebbero indarno il poter d’infrenare ciò che ad essi non fa ostacolo. Ma, per contro, se gli officiali ecclesiastici abusano la spirituale potestà, quali subbugli attizzeranno nel pubblico reggimento? Quale obice non metteranno a una buona amministrazione? Aggiungo questa subalterna alla prima general verità enunciata; e ne deduco che Iddio, nel conferire al principe il carico di governare lo Stato, gli trasmise a un tempo ogni mezzo giuridico a imbrigliare la gente di Chiesa, che torce il divino mandato a rovina della repubblica.

Ristringerò il tutto in una sentenza sola e comunale. Abuso di temporale potestà non vale a impedire la spirituale, acciò che le porte d’inferno non piglino il sopravvento: dunque, non ha questa [p. 277 modifica]mestieri di liberarsene, massime se sia per tornarle in bene. Ma l’abuso della potestà spirituale vale a impedire la temporale: dunque la civile polizia ha dritto a farsi argine agl’inconvenienti spirituali che le riescono a danno. Se il nostro secolo si valesse di questo dritto, come se ne valse la chiesa d’Oriente fino a che acquistò l’imperio; e la occidentale indubitabilmente e dovunque fino al 1050, e di quando in quando, in certi luoghi, anche dopo; godremmo un po’ più di pace.

Voi altri di costà foste per certo i più saldi di tutti a fronteggiare col regio potere le invasioni dei cherici; e da ultimo, per dibarbare lo sconcio, autorizzaste l’avvocato della repubblica, e i privati eziandio, a fare esperimento dell’appello ab abusu. Quanto più posso, fo istanza alla S. V. di volermi scrivere sul proposito di siffatti decreti. Io non ben pratico di quella giurisprudenza, reputai antichissima tal pratica, poichè fin da tempo remoto vedeva darsi facoltà, che se nella Chiesa s’infiltrassero inconvenienti, si facesse di questi inteso il principe, massimamente ove recassero danno agli affari pubblici o privati. Lo che per malinteso zelo essendo andato in disuso, fu rimesso in vigore dai vostri maggiori cento ed ottant’anni fa; e ridotto a formola, tolse nome d’appello ab abusu. Ogni cristiana gente, ogni regno servonsi di qualche ombra di un tale diritto. L’abbiamo noi, l’hanno gli Spagnoli, sebbene questo paia più temperamento di fatto che di legge. Ma voi soli tiraste questo punto a perfezione. Se a tutti fossero note le origini e la cagione del vostro procedere, forse v’imiterebbero, con segnalato profitto del mondo cristiano.

Pertanto la S. V. eccellentissima non indugi a [p. 278 modifica]por mano a somigliante bisogna, certa di far cosa utile al mondo e a tutti gli studiosi gradita. Non val la pena d’andare a’ versi ai Gesuiti: le loro carezze costano la iattura del patrocinio celeste. Lasci che la strapazzino; è la sorte che tocca a tutti i buoni. Nè si pensi che abbiano a rabbonirsi, se pago del già fatto, non porrà mano ad altre opere. Essi non perdonano mai a persona, e non sanno che odiare in supremo grado. Nè se la piglieranno con Lei maggiormente per le scritture che darà in luce, di quel che si facciano pe’ beneficii recati all’universale con la pubblicazione degli Atti del Concilio di Trento e dei Trattati apologetici delle libertà gallicane. Se le preghiere mie hanno qualche valore, non differisca a metter fuora quel lavoro; e quanto più presto ne verrà a capo, tanto ne avrà mercè da Dio, dai buoni elogio, e (ciò che del pari è desiderabile) odio dai tristi.

Sono alla fine del foglio, e non ho pensato la noia che una soverchia lungaggine recherebbe alla egregia S. V. Io tanto la osservo, rispetto, venero, e se può dirsi, amo, da parermi quasi di venir meno fra le sue braccia. La supplico di non avere a vile gli umili ossequi che dal fondo del cuore e con verace sentimento le offro. Alla S. V. salute.

Venezia, 7 luglio 1609.




Note

  1. Edita: come sopra.
  2. Guglielmo Barclay, scozzese ma professore in Angers, aveva scritto un libro intitolato: De potestate Papæ, e un altro De regno et regali potestate adversus monarcomachas. Il cardinal Bellarmino impugnò la prima di queste; la difese il figlio dell’anzidetto Giovanni Berclay, l’autore famigeratissimo dell’Argenide, con altro libro cui diè per titolo Pietas.