Lettere (Sarpi)/Vol. I/62
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LXII. — Al nominato Rossi.1
Ho ricevuto per questo spaccio il De modo agendi del Gretser: di che ne ringrazio V. S., e servirà a qualche cosa, quantunque non sia quello ch’io desiderava. Ho letto con allegrezza il capitolo dove mi scrive che fa copiare le Ordinazioni delli Gesuiti, perchè quelle desidero sopramodo; e mi vado persuadendo che non saranno le Regole; quali io ho; perchè essendo queste stampate in Lione, non se n’avrebbe carestia.
Mi scrive il signor ambasciatore, che invierà tosto la fatica del signor Rochelle, che mi ha molto rallegrato. Lodo Dio che la mia curiosità sarà soddisfatta e contenta, tanto più quanto con poco gusto dei Gesuiti, i quali per l’Italia hanno sparso fama che la instituzione del Delfino era data loro. Sono persone tanto incontinenti negli appetiti propri, che ogni disegnata cosa l’hanno per fatta, non potendosi persuadere che impedimento alcuno sia da loro insuperabile. Così adesso danno fama per Germania, che saranno rimessi a Venezia, con tutto che ancora di ciò non si parli.
Hanno fatto di nuovo un efficace tentativo di entrare nello Stato d’Urbino, e da quel duca hanno ottenuto bellissime e onoratissime parole, ma non più oltre. Gli danno, ogni triennio almeno, un assalto; ma tutti, sino al presente, sono riusciti senza frutto.2 De’ futuri lasceremo agli astrologhi. Duole loro che vi sia un legato lasciato per testamento di quarantamila scudi, quando entreranno; ma forse quello che fa loro procurare l’ingresso, fa che altri glielo neghi.
Di monsignor Juventaux non ho alcuna cognizione, se non che vidi un certo poema di monsignor di Beaumont, inscritto a lui. È credibile che il discepolo si possa facilmente formare, per quanto la natura consentirà, al modello del maestro: per il che ho molto desiderio di sapere la qualità del soggetto, ed in particolare se gli basta un Dio in cielo, oppure se lo vuole anche in terra.3
Con una bell’impresa, tutto in un colpo, privare il re d’un buon ministro, e questo levarlo di mano de’ suoi amici e metterlo in seno de’ nemici, col far mutare partito a monsignor de Sully! Però era cosa che un cieco avrebbe veduta, nè io credo veramente che l’approvasse ognuno che se ne mostri desideroso. Parmi che sia la pace de’ lupi con le pecore, a condizione che fossero dati i cani. La costanza del Sully è stata grande, massime in poter resistere ai sofismi rossi e barbati4 di chi è venuto da Roma solo per quest’effetto.
Se Don Pietro è partito senza effettuare li suoi disegni, buono per la Francia. Si può credere che i pubblicati non siano i veri, e che si abbia effettuato alcuno che in qualche tempo possa costar la testa a qualche persona. È difficile credere che artefici così perfetti mettano ambo i piedi in fallo. Vero è che Dio rende alle volte pazza la sapienza del mondo.5
Sarebbe bene stata meraviglia memorabile che la Roccella, dopo aver sostenuto eserciti reali, fosse caduta per opera di pochi disgraziati. È ben costudita la città che Dio guarda. È un lungo e bel trattenimento il nostro intorno a questa tregua! Ora è fatta, ora è disperata, ora desiderata, ora abborrita. Credo che non vi sia altro di vero, salvo che una parte di quella repubblica resterà spagnolizzata.
Pregherò V. S. a far le mie umili raccomandazioni a monsignore de Thou ed a monsignore Servino, il quale infinitamente ringrazio per i Plaidoyers che gli è piaciuto parteciparmi.
- Di Venezia, il 16 marzo 1609.
Note
- ↑ Vedasi, quanto alla direzione, la pag. 58. È parimente delle pubblicate dal Bianchi-Giovini (Capolago, 1847), pag. 157. Le cose dette nel primo paragrafo di questa Lettera, se si raffrontino a ciò che scrivasi nel quart’ultimo della Lettera LVIII, dimostra quanto sia fondato il sospetto di esso Giovini; che, cioè, il nome di Rossi o Roux fosse già posto a coprir quello del Castrino.
- ↑ Su tale proposito è da vedersi ancora la Lettera dei 16 marzo 1610. — Il duca d’Urbino, Francesco Maria II, uomo di assai buon senso, particolarmente nella sua gioventù, erasi mostrato assai fermo nel difendere le prerogative del principe contro le pretensioni della corte di Roma; nè mai volle, fin che tenne il governo, che nel suo stato s’introducessero i Gesuiti. Vedasi, per questa mirabile resistenza fatta allora da un sovranetto di sì esigua forza, e per altri esempi di liberalità da lui dati, la Storia dei Conti e Duchi d’Urbino, di Filippo Ugolini (Firenze, Grazzini ec.), in ispecie nel tomo secondo.
- ↑ “Allusione satirica al papa,„ qui nota il Bianchi-Giovini.
- ↑ “Altra allusione al cardinale Ubaldini, che era legato in Francia; e ai frati emissari di Roma.„ (Bianchi-Giovini.)
- ↑ Dell’ambasceria del Toledo parlasi ancora nella Lettera XXX (pag. 101), e il Bianchi-Giovini fa intorno ad essa le seguenti osservazioni: “Il Toledo era stato mandato a Parigi per trattare il matrimonio del Delfino coll’infanta di Spagna, e la pacificazione dell’Olanda e del Belgio; le quali provincie la corte di Madrid, favorita dal papa e dai Gesuiti, tendeva, col pretesto del matrimonio, di ridurre sotto il cattolico suo dominio. Le prime pratiche di questi negozi erano state introdotte dal provinciale dei Gesuiti di Fiandra. I Veneziani ed altre potenze d’Italia e d’oltremonti, che non amavano quest’alleanza tra le due corone, fecero ogni possa per frastornarla, e vi riuscirono. Vittorio Siri, nel tomo I delle Memorie recondite (pag. 457 e segg.), spiega molto a lungo le trappole diplomatiche che si tendevano a vicenda i trattatori.„