Lettere (Campanella)/XXIV. Al medesimo

XXIV. Al medesimo

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XXIII. Al medico Giovanni Fabri XXV. A Gaspare Scioppio
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XXIV

Al medesimo

Premessa la risposta sul pieno e sul vacuo, dice di essere sempre in attesa della spedizione della sua causa, il cui ritardo egli l’attribuisce in parte al disgusto del suo tutore [fra Serafino da Nocera] con Abacuc [Daniele Stefano]. Tuttavia non ne vuol far parola con l’angelo [Schopp]; e ripone ogni speranza nell’intervento dell’arciduca Ferdinando. Non sa spiegarsi il silenzio di Antonio Persio.

Per obedire a Vostra Signoria rispondo alle quistioni e sentimento di questa cartella che Vostra Signoria mi lasciò; e però dico che lo autore non ha filosofato niente sopra questa materia nella natura né negli autori che del vacuo e del pieno ragionâro; perché bisognava, primo, bene investigar le cause perché non si dona il vacuo, giá [che] quelle di Aristotele son vanissime e da molte sperienze deluse. Né alcun peripatetico ha saputo donde viene la proibizion del vacuo, né mai seppero rispondere a questa ragione della rarefazione tanto naturale per il caldo quanto violenta per l’estrazione, in che modo si faccia senza intercipere vacuo; ma colla potenzia ed atto [p. 139 modifica]credono uccellar ogni argomento. Nella seconda parte della Metafisica mia io trovai che il consenso e mutuo contatto degli enti che compongon l’animale mondiale, proibisce la divisione di quello e per conseguenza il vacuo: e ciò per natura, non per violenza che manifestamente lo dá, come per violenza ogni animale si sega. Dissi pur quivi e nel primo De sensu rerum, che lo spazio universale, base dell’essere di tutti enti, ebbe potenza, senso ed amore della propria conservazione, e lui medesimo abborrendo di star vacante attrae: il perché e ’l come in questi libri sta scritto, e provato che la violenza ammette il vacuo. Secondo, scrissi quivi e nel primo della Filosofia che lo spazio universale, in cui è fondato l’universo, è immobile longo, largo e profondo, a nullo ente contrario, atto a ricever tutti corpi lunghi, larghi e profondi; e che da quelli è penetrato corporalmente e lui penetra quelli incorporalmente; e che entra nella composizion delle cose e piú delle rare, come base d’essere e non come parte immanente e mobile con l’altre sode.

Vedo che questo amico non ha letto l’opinioni di Leucippo e di Democrito e d’Epicuro appo Plutarco e Laerzio e Galeno [in] De historia philosophica ed Aristotile in molti luoghi, perch’averia inteso come Ierone sequendo quelle opinioni interpose il vacuo nei corpi; e come questo vacuo non è mobile ma lo stesso spazio immobile, e che non intra ed esce dal vaso ma è intrinseco al vaso, o stia o movasi: e dovunque è il vaso, viene dallo spazio penetrato incorporalmente. E se quelli no ’l dicessero, corre per Lucrezio si conosce in tutti i suoi libri, e piú nel primo e secondo, la natura tutta lo mostra: però dico che senza filosofi e senza filosofare dice che lo vacuo entra nel vaso o entrarla secondo Ierone; ma peggio dice quando dice ch’è niente e che non si dá penitus. Ma non sa rispondere perché, sendo succhiata l’aria, tira il vaso il labro a sé per empirsi: e cosí nelli mantici elevati donde pria fu l’aria spremuta, e nelli schizzatoi tirando lo stecco dopo che sia otturato il pertugio, e nelle ventose che tirano la carne per empirsi — certo se non fossero vacue, in parte, non tirariano. [p. 140 modifica]

Per tanto dico a questo amico che lasci tale impresa, perch’è falsissimo fondamento che non si doni vacuo penitus:

l’argomento suo nell’intromissione vale, ma è contra lui nella espulsione: perché nullo aere può entrare dove s’ottura la bocca e tutti li fori con pece, quando s’alza il mantice e si serra la ventosa e si trae lo stecco e si gela il fumo nel vaso impegolato: né ci bisogna ch’entri il vacuo, perch’è incorporeo e sempre interno ed in lui s’appoggia ogni ente intrinsecamente. S’inganna similmente mentre pensa che il vacuo stia seminato tra ’l raro secondo Ierone, perché non s’intende che sia come corpicelli sparsi, ma che lo spazio è pieno d’atomi e non per tutto, e però par quasi seminato di vacuitati molte; ma piú tosto si deve dire seminato di atomi.

Finalmente vuole ch’io provi che lo stesso avviene all’aria dalla rarefazione del caldo e densazion del freddo, che quel che gli avviene dall’attrazione ed impulsione. Io rispondo che non è lo stesso: perché il caldo penetra l’aria e li dona il proprio senso ed amore e potere, come dissi in Metafisica, e però rarefacendolo resta rado e se vacuo s’intercipe, hic labor est: ma la ragion è che lui sendo di natura mobile e le cose dense resistendo al molto, egli l’attenua e rarefa per agevolarle a quello, e per contraria causa il freddo addensa. Ma quando l’estrazione il rarefa, non li dona interna virtú a star raro, ma lo sforza a concepere vacuo; e per questo egli torna subito a riunirsi per non istar diviso: e l’impulsione non li dona la formale di star unito ma lo sforza, e lui poi torna al suo stato, come la verga piegata da sé si dispiega. Né mi posso metter a provar bugie secondo il senso mio».

Signor mio, sono corto in questo che scrissi, perché non voglio scoprire li secreti mirabili di questo gran problema che scrissi altrove, prima che si stampino li libri miei; né l’angelo vorria, come spesso m’ha proibito. Ma ho sodisfatto a tutto quanto si desidera, se legge bene e piú volte, ed [ha] aperto gli occhi a filosofar sopra tal negozio. Se Vostra Signoria mi comanda altro, lo farò subito. Io sto piú stretto che prima quanto allo scrivere; e sto aspettando questi signori e non [p. 141 modifica]comparono; e le cose tardano per disgusti di Abacuc con il tutore, il quale ha fatto piú d’Ercole ed ora piú non può. Io non voglio scrivere di questo all’angelo, ma far le prove mie con questi principi: e spero che venga lettera da Ferdinando che vada dove egli è: non ci è altro rimedio. Mi stupisco che non risponde il Persio a due mie, inviat[a] per Vostra Signoria l’una e l’altra portata.

Mi par mille anni vederci da vicino. Dio il faccia. Scriva Vostra Signoria all’angelo che solleciti.

[Napoli, fine d’aprile o principio di maggio 1608].


A. Giovanni Fabri
medico e semplicista dottissimo di Nostro Signore

Roma.

Subito.