Lettere (Campanella)/XXI. A monsignor Antonio Querengo
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XXI
A monsignor Antonio Querengo
Narra la sua singolare vita e dá ragguaglio de’ suoi studi per stabilire il paragone tra se stesso e Pico, e per chiedere l’aiuto che lo restituisca alla libertá.
Cortese signore,
L’angelo mio Scioppio — a cui Dominedio donò sagace spirito di discrezione, ché fra le folte tenebre dell’anticristianesmo scernesse la vera luce dell’eterna Sapienza, e poi fra gli abissi sotterranei, dove io abito, acutissimo occhio di pietá donolli a conoscer quello ardente desiderio ch’ho, ed ebbi sempre io, delle virtú celesti, quantunque come animal grosso a quelle non m’abbia potuto mai ben alzare — mi scrive che fra molti principi e generosi spiriti che presero la mia protezione a sua istanza, secondo la grazia che l’Altissimo li porge a tutte meravigliose imprese, ci sia Vostra Signoria, così dicendo: «sed et Antonius Quaerengus, patavinus cabicularius pontificius, de cuius doctrina et iudicio summa hic est existimatio, promisit mihi se a cardinali Burghesio eiusdem argumenti literas ad eundem proregis filium impetraturum. Mirifice enim te aestimare coepit, teque inter naturae miracula super Picum mirandulanum numerati; adeoque nihil sibi esse ait antiquius quam te ridere et audire posse. Confido itaque eum tibi non defuturum. Idem Aquavivae iam mentem mutavit tibique benevolentem reddidit. Posses itaque tribus verbis ei gratias agere, et ut in ea mente perseveret, rogare».
Or perché ogni sua parola mi deve esser precetto, avendomilo dato l’Omnipotente per novo redentore, mentre io com’Ella li dimandava morte per finir tante miserie, vengo a far l’officio che mi dice, ringraziando Vostra Signoria piú presto per obedienza che per necessitá — sapendo io certo ch’in mente picciola non può capir concetto tanto generoso e grande di favorir un meschino condannato dall’opinione popolare e di principi come il piú empio e malvagio che fosse mai stato nel mondo; e per natura gli uomini che s’accommodano a questi gridi, son d’animo volgare. Talché son securo che non cessará in Vostra Signoria quel pensiero nobile a dimostrarsi in tutte l’occasioni, sollecito di metter a fine l’impresa della mia salute; ché se ben io son indegno di tanto difensore. Vostra Signoria non è indegna di tanta misericordiosa ed ardua azione; e credo bene ch’ella consideri come ne’ magni articoli di tempi tutti gran filosofi e profeti ed apostoli e Giesu dio nostro ancora siano morti sotto questi titoli di eresia e ribellione.
Querela antica, dicon Platone e Senofonte nell’Apologia di Socrate, contra i sapienti chi tirano il mondo errante alla vera maniera di vita beata; e perché la dottrina loro vien d’animo degno di comandare, sono tenuti per usurpatori di quelli regni chi cercano migliorare. Ma sempre achitofellisti e macchiavellisti saranno chi interpretan ambizion di stato esser maestra delle dottrine e veritá sacre, perch’essi tutto drizzano a questo fine, e con gli occhiali loro mirando l’azioni altrui, al modo loro se le fanno apparire. Però si legge: «morte moriatur Ieremias quare prophetavit etc.»; ed «odi eum» di Michea, «quia non prophetat mihi bona»; e d’Amos: «rebellat Amos, o rex Ieroboam»; et d’altri: «benedixit Deo et regi»; e finalmente: «blasphemat etc.», «samaritanus est etc.», «contradicit Caesari etc.», «se regem facit». Cose simili a Socrate, a Seneca, a Lucano, ad Anassagora, a Pitagora son venute nella sapienza naturale.
Queste considerazioni avran fatto pensare Vostra Signoria ch’io forsi potessi esser simile a qualch’uno di questi, al che il volgo non può mirare. Ed io le dico che mi basta essere stato desideroso d’assomigliarmi a loro; e credo ch’i libri miei, e particolarmente quelli dove mostro gli ultimi sintomi della morte dell’universo, ne diano qualche saggio; nel che ho in favore tutt’i santi dottori e san Pietro chi mi spinse a considerarli ed ad estirpar l’anticristianesmo di filosofi ed astronomi e teologi in parte venduti ad oscurar il Vangelio, e porre agli occhi umani quella nebbia che dal pozzo dell’abisso con li campioni dell’Anticristo copiosamente svapora. Nel che desidero che Vostra Signoria sospenda il giudicio ch’ha di me in questa materia ed in tutte l’altre scienze, fin a tanto che mi dará l’Altissimo di poter a bocca io communicarli l’anima mia; perché di lontano le cose nove non recano sodisfazione se non a spiriti assai puri ch’in nulla altra primera opinione si lasciano ostinare, se non è vera a tutti sensi e confirmata da celeste avviso: ed allora non opinione ma testimonianza si dicerá, imparata nel libro di Dio, ch’è l’universo, e letta con tutti li sentimenti e di piú certificata da maestro d’indubitata fede, ch’è quello che «solus est verax etc.».
Dunque la ringrazio di tanto affetto, e ne la riprego che segua a favorirmi ch’esca presto da questo antro prima che moia; ché giá il petto e la testa son tanto offesi che poco posso sperar salute, sendo stato quattro anni sotterra con ferri sempre sopra un fracido e bagnato stramazzo, e con pane ed acqua di tabulazione senza veder mai cielo né luce né persona umana; in luoco sempre bagnato che stilla d’ogni muro acqua continuamente, talché continua notte ed inverno io sento, altro che tre ore di luce la sera quando queste scrivo di nascosto, ed il giorno un poco a ventidue ore per dire l’officio. E pur mi concede Dio fra nemici tanta grazia di poter comunicar occultamente con l’angelo mio, e con altri ch’operano la mia salute: sia sempre lodato! Né credo che ci voglian molte preghiere con Vostra Signoria, perché facendo ella quel ch’è natural a persona eccellente, li sará gioconda questa impresa e dilettevole, procedendo dall’altissima virtú della beneficienza, di caritá sopranaturale avvivata. E sendosi Vostra Signoria mossa cosí facilmente, mi par vedere in lei quella puritá ch’io cerco nelli spiriti umani che devono esser atti ad ogni scienza, e non ostinarsi in nulla opinione.
Il giudicio che fa di me, ch’io sia sopra Pico o qual Pico, è troppo alto per me; e credo che ella mi misuri con misura della sua perfezione. Io, signor mio, non ebbi mai li favori e grazie singulari di Pico, che fu nobilissimo e ricchissimo, ed ebbe libri a copia e maestri assai, e comoditá di filosofare e vita tranquilla: le quali cose fan fruttar mirabilmente un fecondo ingegno. Ma io in bassa fortuna nacqui e dalli ventitré anni di mia vita sin ad ora, che n’ho trentanove da finir a settembre, sempre fui persequitato e calunniato, da che scrissi contra Aristotile di diciotto anni; ma il colmo cominciò a ventitré con questo titolo: Quomodo literas scit cum non didicerit? Son otto anni continui che sto in man di nemici, e per sapientiam et per stultitiam sette volte dalla presentissima morte il Senno eterno mi liberò; ed inanti a questi otto anni stetti in carceri piú volte, che non posso numerare un mese di vera libertá, se non di relegazione; ebbi tormenti inusitati e li piú spantosi del mondo, cinque fiate e sempre in timore e dolori.
Nella gioventú mia non ebbi maestri se non di grammatica, e dui anni di logica e fisica d’Aristotile, la quale subito rinegai come sofistica; e studiai solo tutte scienze da per me, e scrissi cose non volgari; e caminai per tutte le sètte antiche e moderne di filosofi, di medici, di matematici, di legislatori e d’altri scienziati nelle arti parlatrici ed operatrici e conoscitrici, e sacre e profane d’ogni maniera; e nelle tribulazioni sempre piú imparai e trovai vero: «patientia probat viri doctrinam». E mi rallegro in quello che dice l’Ecclesiastico che fa la sapienza a’ suoi seguaci: «timorem et metum et probationem induc t super eum, et cruciabit eum in tribulatione doctrinae suae donec tentet cum in cogitationibus suis, et credat animae illius». Questo io n’ho visto e parte di quel che segue: «et firmabit illum, et iter adducet directum ad illum, et laetificabit illum et denudabit absconsa sua illi, et thesaurizabit super illum scientiam et intellectum iustitiae»: il che voglia Dio.
Ecco dunque il diverso filosofar mio da quel di Pico; ed io imparo piú dall’anatomia d’una formica o d’una erba (lascio quella del mondo mirabilissima) che non da tutti li libri che sono scritti dal principio di secoli sin a mo’, dopo ch’imparai a filosofare e legger il libro di Dio: al cui esemplare correggo i libri umani malamente copiati ad a capriccio, e non secondo sta nell’universo libro originale. E questo m’ha fatto legger tutti autori con facilitá e tenerli a memoria, della quale assai dono mi fe’ l’Altissimo; ma piú insegnandomi a giudicarli col riscontro del suo originale. Veramente Pico fu ingegno nobile e dotto; ma filosofo piú sopra le parole altrui che nella natura, donde quasi niente apprese; e dannò gli astrologi per non aver mirato all’esperienze. Ed io li dannai quando ero di diciannove anni, e poi vidi altissima sapienza intra molta stoltizia loro albergare, e lo dimostrai in un libro proprio di questo, ed in Metafisica nova — ché quella d’Aristotile è parte logica, parte impietá nefanda; solo Parmenide in questa seppe qualche cosa. Pico ancora nelle cose morali e politiche fu scarsissimo, e tutto si diede alla nomanzia dello ebraismo ed a voltar libri; ma se non moria cosí presto, diventava grande eroe della vera sapienza; ché giá avea la selva congregato e non fatto la scelta di lavori etc.
Io lo stimo piú grande uomo per quello che dovea tosto fare che per quello ch’ha fatto. Se ben io cedo non solo a lui ma ad ogni altro ingegno che mi sia testimoniante di quel che s’impara nella scola della natura e dell’arte, in quanto accordano alla prima Idea e Verbo onde elle pendono; ma quando gli uomini parlano com’opinanti nelle scole umane, li stimo equali e senza sequela; poiché sant’Agostino e Lattanzio negâro gli antipodi per argomenti e per opinione, ed un marinaro gli ha fatti bugiardi col testimoniar de visu. Se ben tra gli opinanti piú a quelli assentisco — quando parte di testimonianza non li fa dissequali — i quali son piú pii e non soggetti a paura ed ambizione che fa l’uomo mentire. Questo modo di filosofar mi ha consolato l’animo; ché fatta essamina di tutte le sètte e religioni che fûro e sono nel mondo, ho, come spero, assicurato piú me stesso e tutti gli uomini delle veritá cristiane e della testimonianza apostolica, e vendicato il cristianesmo e liberato quasi dal macchiavellismo e dall’infiniti dubbii che pungeno li cuori umani in questo secolo oscuro dove tutti filosofi e sofisti, religione, empietá e superstizione hanno equal regno e paion d’un colore. Tanto ch’al Boccaccio par che non si possa discernere per sillogismo qual sia piú vera legge tra la cristiana e la macometana ed ebraica; e tutti scrittori vacillano sopra l’empietá aristoteliche; e le scole parlano con dubio e mussitando: e di questo Vostra Signoria n’averá qualche saggio nel libro intitulato all’angelo mio, ché la forza sua si vedrá nella Metafisica.
Per tanto segua Vostra Signoria a favorirmi, ch’io rassicuro che favorisce la causa di Dio. Duoleme che fui scelerato peccatore del mondo e ch’abusai gli ammirabili doni del Creatore; e però come servo e contumace m’ha fatto suo per tanti flaggelli. Io non li voglio dire quel di Salomone: «vidi iustos quibus mala proveniunt tanquam opera egerint impiorum, malos autem qui ita securi sunt ac si bene egissent», perché io non mi conosco giusto; ma ben l’assicuro coram Deo che io non sono eretico né ribello, e che mai per ostinata volontá ho errato, quantunque il poco intelletto mi avesse trasportato fuor di strada: il che non credo. Perdonimi ch’io non son cortegiano, e non so con che titoli si scrive a Vostra Signoria né come si parla, ché son otto anni che non parlo in lingua mia né con persona del mondo a senno. Però gradisca con alto animo quel che la mia bassezza fa in ringraziarla e pregarla che mi faccia venire alla luce che il Padre celeste spande sopra i buoni ed i mali, ed io solo che tanto investigai il cielo, ne son privo tanto ch’invidio alle mosche ed a serpi questa mirabile grazia, e veramente di divinitá apparenza mirabilissima.
E s’io vaglio a qualche cosa, m’offero con quella prontezza grata che si deve a tanta beneficienza da chi non volgarmente ha le virtú cercato filosofando in fatti ed in parole. La supplico ch’aiuti l’angelo mio in questo, e veda «ne angelus regni persarum resistat illi quadraginta diebus etc.», perché sto quasi morendo. Ma Vostra Signoria «sicut Michael princeps in papaia Dei» adsit angelo meo etc. So quanto val la sua lingua appo Sua Beatitudine e signori nepoti. Dunque mi par errare in avvisando a chi tanto sa. Ma, per l’amor di Dio, taccia di questa lettera fin tanto ch’io muto stanza; perché se si sapesse ch’io scrivo, la ruina saria di qualch’anima giusta che mi è pietosa, ed a me ferri sopra ferri e maniglie non mancariano etc. Fra tanto prego l’Omnipotente che m’ha fatto sentinella di questo secolo, che doni a Vostra Signoria grado tale che possa a tutti buoni mostrar la sua cortesia piú largamente sempre: il che devo augurare e sperare etc.
[Napoli], dal profondo Caucaso, agli 8 di luglio 1607.
Un che la ringrazia e supplica.