Lettere (Campanella)/XCI. A monsignor Niccolò Claudio Fabri di Peiresc
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XCI
A monsignor Niccolò Claudio Farri di Peiresc
Si difende con molto calore dalle quattro accuse
che gli danno i suoi nemici.
Illustrissimo e reverendissimo
signore e padrone colendissimo,
L’officiosissima e gratissima delli 3 di luglio ho letto con piacer singolare, sí per quanto conosco da quella la molta affezione e gelosia che porta Vostra Signoria illustrissima e reverendissima a me ed alle cose mie, e che non lascia per questo ammirabil zelo e filosofico animo di non avvisarmi quello ch’ad altri sarebbe causa di cordoglio e dispetto; sí anche perché, esaminando me stesso, mi trovo a punto di quella maniera che Vostra Signoria illustrissima desidera e cerca farmi. E sol mi duole che non mi conosce ancora per fatto tutto a suo gusto, e perché, secondo comprendo, di quattro cose vengo accusato. Prima, che non lascio di murmurar contra il signor Cassendo; secondo, che non conosco la libertá francesa, e mi beffeggio di quanti non son della mia opinione; terzo, che non ho pensato ancora, dopo tanti studi e vecchiezza, che ci pònno esser cose divine in quei libri che piú si spreggiano, e che non tutti potemo saper tutto; quarto, che lo scriver libri grossi, e confutando l’altrui opinioni, deventano fastidiosi che nessun ha tempo di leggerli, ed odiosi per la maldicenza e per voler ad altri tôr la licenza di meglio filosofare. Laus Deo.
Quanto al primo, mi basta l’innocenza e la relazion che può aver Vostra Signoria illustrissima da quei che prattican meco continuamente, com’io non solo non dico né dissi mal del signor Cassendo, ma sempre bene, e quel che deve un omo filosofico; e quanto scrissi nella nova Etica, tutto l’osservo.
Donde provenga adesso che Vostra Signoria illustrissima ha lettere tante in contrario, non ho che dire se non che tante lettere non potrebben venir a lei cosí false ed empie, ruinose alla sacrosanta amicizia, eziandio s’io non facessi altro tutto il giorno che tener catedra contra il signor Cassendo. Ma questa è impresa o fingimento di sfacendati e poco bene animati verso me e peggio verso tutto il genere umano; o ver di persona discortese che mai non mi vede né guata, e finge di non farlo, perché mi trova disputante contra gli amici e contra filosofi tutti: e non per sua discortesia, o per parer che sa dar giudizio di me non conosciuto da lui, ma s’imagina che io, sendo d’opinione lontana dalle volgari, non fo altro che detestar gli altrui detti e scritti. Né può esser che gente chi prattica meco, possa far questa relazione a Vostra Signoria illustrissima, se non fosse diavolo nato a tentare. Di grazia, s’informi da chi sempre è meco, e vedrá l’innocenza mia, della quale io fo stima assai venendo al tribunal di Vostra Signoria illustrissima; ché se fosse altro, non farei conto alcuno, e direi solo: «Mente chi lo dice».
Quanto al secondo, dico ch’io son venuto in Francia per cercar libertá, e parteciparla dove la trovo, assai sitibondo dopo tanti guai, privato di quella. Ed or come può imaginar Vostra Signoria illustrissima ch’io voglia tôrla ad altri, quando insieme necessario fora tòrla a me? Io, in veritá, a quanti vengono a dirme l’opinion loro non volgari, non solo non contradico, ma li prego che scovrin le lor cose e mi faccian parte; e commendo la generositá che non si contenta di cose ordinarie, e con ogni caritá e termino civile io dico che mi favoriscan insegnarmi tutto il lor dogma, perché io resti sodisfatto senza contradir alla parte; ed amo e stimo tutti studiosi, e li conorto al meglio, né mai propongo le cose mie senza creanza, e pregando che s’han opinione migliore e se par a loro ch’io erro, m’insegnino meglio. Anzi essendo venuto a trattar con i calvinisti in casa del li signori Puteani, dopo qualche picciolo discorso m’offersi a provar che stanno in errore, con patto che se mi vincono io mi farò calvinista, e s’essi son vinti che non possatn rispondere, si faccino catolici; e non han voluto accettar il patto, forsi perché conoscan la forza delle mie ragioni, o han la religion per politica etc. E nelli ragionamenti filosofici sempre mi rimetto a chi per consenso di tutti astanti mi dirá miglior ragioni etc. Però non so come Vostra Signoria può aver relazione contraria se non da chi non prattica meco; e perché si sa ch’io non son dell’opinion peripatetica commune, stima far ottimo giudizio di me appresso Vostra Signoria illustrissima con dire che contradico a tutti incivilmente, perché questo parrá credibile a chi sa che non son del commune senno. Io imparo dalle formiche, dalle mosche e da tutte le minutezze naturali sempre qualche cosa, e Vostra Signoria può veder ch’abborrisco l’imparar dagli uomini.
Talché rispondo al terzo, che io ho cercato tutte le sètte del mondo, piú che san Giustino il filosofo, non solo di legislatori e religioni varie, come si può veder dal libro intitolato Reminiscentur etc.; ma anche di tutti filosofi, come vedrá dalla Metafisica. Ed ho visto che nelle piú sprezzate sètte vi son pensieri mirabili; e quando io le rapporto, è necessario che mostri confutarle, come fa il Galilei del Copernico: e pur questa cautela non li bastò. Ma io le metto al teatro del mondo per ben di tutti. E solo contradico ex animo, dove si tratta de fide catholica supernaturali . In vero, s’io fossi qual sono a Vostra Signoria descritto, non ci sarebbe persona che mi fiutasse; e con tutto ciò non ho tempo di mangiare, tanto è il concorso, salvo di quelli che vi dicono ch’io sia senza rispetto, e senza ragioni m’antepongo a tutti, e dico mal di tutti quanti mi parlano e scriveno. Certo se fosse cosi, non tornarebbono né mi ascoltarebbono né cercarebbeno i scritti e le stampe e l’intender da me. Io chiamo tutti alla scola di Dio, nel libro dell’universo, dove Dio vivamente scrisse i suoi concetti e dogmi; e li revoco dalle scole umane e dalla mia; e li scongiuro che non mi tengan per mastro — «unus magister vester qui in coelis est», — ma per condiscepol loro nella scola di Dio: ed a tutti protesto questo. E Vostra Signoria intende ch’io, come fan li pedanti arrabbiati dell’amor di lor bagatelle, dico: «Credete a me solo».
Addiscentur opere (?) credere. Vostra Signoria mandi la copia di questa lettera a questi giudici e testimoni falsi, ché ben vedrá quando restan convinti e confusi del contrario: e tutti sanno che questo è il principio de’ miei ragionamenti ed officii a che mi trovo nato: di rivocar gli uomini dalle scole umane alla divina, e dai libri degli uomini a quel di Dio. E di ciò parlai al signor Cassendo, e gustai molto del suo studio sul libro di Dio con li strumenti atti. E parlai degli atomi, dicendo che non mi parean bastanti sí non alla materia dell’universo, ma non all’arte mirabile e cause altre d’ogni sorte. E lui mi disse che era del medesimo pensiero; e che conosceva il senso delle cose, e praecipue delle comete, e l’artefice e tutte cause. Io mi spanto dunque donde a Vostra Signoria vengono questi avvisi tanto continui; e di piú aggiunge che non perdono pur al signor Naudeo. Invero m’atterrisco di tante calunnie. Dice Salomone: «Calumnia conturbat sapientem et perdet robur cordis illius»; or quanto piú di me, che mi conosco per omo che desidera sapere ma non sa. Vostra Signoria vedrá nel primo libro della Metafisica dove dimostro che nessun omo sa tutte cose, ma «quae scímus sunt minima pars eorum quae ignoramus»; e che di questa minima parte «habemus scientiam ex parte non ex toto»; e che non le sapemo «prout sunt» ma «prout nobis apparent». E però son tante opinioni nel mondo; ed io non so se devo creder alla capra quando dice che la ginestra è dolce, o a me che dico amara; e se devo creder al cane che [dice] odorosa quella cosa ch’a me puzza; et sic de caeteris. Non son tanto grosso che credo a me solo, e che non lasci filosofar meglio. Dispiacemi che non sia a lei presente per poter mostrare quel che dico.
Al quarto rispondo che tutti i libri miei son aforistici, come può veder, salvo la Metafisica dove fui forzato diffondermi per le cause ch’ella può considerare. E qua tutti mi dicono che scrivo troppo compendioso ed assai piú ch’Aristotile: e son amicissimo di Salomon in questo e d’Ippocrate. Né scrivo per dir male, ma per invitar tutti a trovar il vero e ’l buono a chi Dio ci ha creato; e s’io confuto le opinioni altrui, non ci è scrittor che non lo faccia con minor, forsi, rispetto: vedi Aristotile. È necessario per seminare levar le spine prima, e però ho fatto poi li compendi della Metafisica. Galeno, san Agostino, san Tomaso e tanti altri chi scrisser assai, son letti assai da chi n’ha voglia; cosí sarò io nella Metafisica, dove non confuto per confutare, ma per avvertir gli altri a cercar cose piú e megliori. Vostra Signoria illustrissima diasi pace nel servo suo ch’è qual lo desidera, e se le pare dirmi altro, mi ammenderò sempre ad ogni cenno; e creda che vivo come scrivo nelli Morali. E creda a chi mi conosce e non a chi pensa far giudizio astuto dell’incognito. Ho ripreso Nodeo che mi tenne li scritti, e per ciò non li posi a stampa con quel di Iesi; nel resto li son servitore: ed io li feci dar la piazza dal conte di Brassach; e fo quel che posso per gli amici, nè mi diletto dir li loro difetti.
Mi piace che le sia venuto il pecorello; e se lo manderá a me, li protesto che questo lo ricevo per segno di volermi separar dalla servitú e grazia sua; io lo feci venir solo per lei ed a me non serve. E cosí le medaglie; e restai scornatissimo che non sian tutte, né l’abbia tenute. E per questo adesso, e perché rifiuta come vanitá l’officiositá mia nello stampar qualche cosa col suo nome per memoria del mio debito e di quel che le deve il mondo, come a statua viva della eterna beneficenza; verrei in pensiero che Vostra Signoria non ha gusto ch’io le sia servitore e mi par un volermi licenziare, tanto piú che tien almeno probabilmente ch’io sia quel che m’han descritto a Vostra Signoria illustrissima questa ociosa gente zizaniosa, parlante di quel che non sa. Dio lor perdoni, ed a Vostra Signoria illustrissima e reverendissima dia lunga vita e sempre maggior forze per beneficio di tutti buoni. Saluto.
Parigi, a’ 17 luglio 1635.
Di V. S. illustrissima e reverendissima |
All’illustrissimo e reverendissimo signor
l’abbate Fabri, monsieur de Peresc,
padron colendissimo,
in Aix.