Lettere (Campanella)/LIV. Al padre Ippolito Lanci di Acquanegra
Questo testo è completo. |
◄ | LIII. All'imperatore Ferdinando II d'Austria | LV. Ad Urbano VIII | ► |
LIV
Al padre Ippolito Lanci di Acquanegra
De’ titoli.
Scrivo di mala voglia, però lasciai di farlo sin ora ch’ella m’astringe, non solo perché sto scontento per non poter ottener un minimo favore da questi signori ma guai, donde speravo requie dopo ventotto anni di afflizioni; ma ancora perché scrissi di questa materia a richiesta di don Virginio Cesarini un opuscolo e dissi a Vostra Paternitá reverendissima se ’l facesse venire, e stavo in questa speranza. Ora dunque scrivo in fretta ed a forza.
Lascio la definizion del vocabulo e dell’essenza di titoli; e dico qualche divisione per saper quali titoli son alterabili, e venir a risponder s’è bene alterarli, massime ne’cardinali. Altri titoli son dell’officio e funzione che han nella republica i personaggi atti al governo, come tra laici d’imperatore, re, duca, conte etc.: e questi non si pònno alterare né si devono. Cosí è nella chiesa: titoli di papa, cardinale, arcivescovo, patriarca, vescovo, abbate etc., tutti inalterabili per le cause predette. Altri son titoli della professione, come di teologo, medico, poeta, fisiologo, oratore, grammatico, pittore, mercante, marinaro con gli altri spettanti all’arti speculative e mecaniche, liberali e servili: non si pònno alterare per quel che ne scrissi in detto opuscolo. Altri sono titoli significativi della dignitá delle persone egreggie, come illustrissimo, santissimo, reverendissimo, venerabile, clarissimo, serenissimo: delli quali alcuni hanno il sostantivo, come riverenza, santitá, altri non l’hanno, come illustrissimo, clarissimo, dico nell’usanza. Ci è poi titolo di altezza solo sostantivo, e non s’usa altissimo, come signori e signoria.
E tutti questi titoli s’alterano dall’usanza e da’ principi a lor modo; perché si legge nell’Epistole di san Geronimo e di san Bernardo e nei concili, ch’ai papa si dava il reverendissimo ed a’ cardinali il venerabile, il deoamabile, ad altri il santissimo. Anzi Geronimo ad Agostino scrive cosi; «Beatissimo papae Angustino»; e non ebbero mai fermezza i titoli. Alli re scrive Pietro Crescenzo: «All’eccellentissimo misser Carlo d’Angiò re di Napoli»; poi fu trovato il serenissimo ed invittissimo e si lasciò il missere, che vuol dire: mio signore. Di piú, questi vocaboli non si considerano dall’imposizione per etimologia, ma dall’onor a che significar son imposti; perché illustrissimo come il sole, è piú che serenissimo come l’aer disnebbiato, e nondimeno quello è titolo di baroni e questo di re.
Or perché il clero si dice eletto per sorte al governo, come profetò Isaia, e laico voi dir plebeo, a cui l’esser governato conviene; è necessario fare ch’i titoli ecclesiastici non communichino co’ laici. Il santissimo sta bene al papa; ma l’illustrissimo a cardinali, a vescovi, a baroni ed a camerieri del papa non deve esser commune. E perché giá è communicato, né si può senza disturbo contraere a cardinali, fu ben pensato dal papa mutar i titoli di cardinali. E perchè comparantur regibus, secondo i canonisti, li si potria dar la maestá e serenissimo, o l’altezza ed altissimo; ma perché non conviene, sí perché i laici si doleriano, sí anche perché la communanza con loro non giova ma noce alla dignitá clericale per le prove assai fatte da me in detto discorso, per questo io dissi che il papa deve alterarli, ed accennai i modi. E di piú, che altri vocabuli son laudativi, altri onorificativi, altri glorificativi, altri mirificativi, secondo scrissi nell’Etica, parlando della virtú della beneloquenza e benevolenza e beneficenza che ci guidano verso il prossimo: si deve considerare dal papa quali siano ed a che grado di superioritá ed inferioritá convengono.
Io son un verme, non voglio dar consulta in ciò se non sono comandato per obedienza, né voglio piú mostrar di sape[r] piú che li volgari cortigiani, giá che tanto mi noce l’avere filosofato per servire a’ padroni non volgarmente. Quanto all’alterazione, non può nocere né dar causa di lamentanze a nessuno, mentre si va con questa regola: dare a’ cardinali e vescovi quei titoli de’ quali si fregiano i principi. Dunque, né maestá né altezza, né eccellenza né signoria né mercé, vocaboli di Spagna, né altri di altra nazione a lor conviene; ma altri cavati dalla filosofia morale per utile della republica e dalla santa scrittura. Quanto sia utile il titolo ed a che serve e che utilitá reca al titolato, a’ titolanti, alla republica, io lo dichiarai in quel discorso; e come dalla confusion di titoli presenti ne nascon inconvenienti a tutta la politica e tardamenti di beni, dove non c’è effetto di male. Resto al suo comando.
Roma, [a’ primi di aprile] 1627.
Il povero Campanella.