Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori (1568)/Piero di Cosimo

Piero di Cosimo

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Antonio da Correggio Bramante da Urbino

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Vita di Piero di Cosimo pittor Fiorentino

Entre che Giorgione et il Correggio con grande loro loda e gloria onoravano le parti di Lombardia, non mancava la Toscana ancor ella di belli ingegni, fra’ quali non fu de’ minimi Piero, figliuolo d’un Lorenzo orafo et allievo di Cosimo Rosselli, e però chiamato sempre, e non altrimenti inteso, che per Piero di Cosimo: poiché invero non meno si ha obligo e si debbe riputare per vero padre quel che c’insegna la virtù e ci dà il bene essere, che quello che ci genera e dà l’essere semplicemente. Questi dal padre, che vedeva nel figliuolo vivace ingegno et inclinazione al disegno, fu dato in cura a Cosimo, che lo prese più che volentieri, e fra molti discepoli ch’egli aveva, vedendolo crescere, con gli anni e con la virtù gli portò amore come a figliuolo [p. 21 modifica]e per tale lo tenne sempre. Aveva questo giovane da natura uno spirito molto elevato et era molto stratto e vario di fantasia dagli altri giovani che stavono con Cosimo per imparare la medesima arte. Costui era qualche volta tanto intento a quello che faceva, che ragionando di qualche cosa, come suole avvenire, nel fine del ragionamento, bisognava rifarsi da capo a racontargnene, essendo ito col cervello ad un’altra sua fantasia. Et era similmente tanto amico de la solitudine, che non aveva piacere, se non quando pensoso da sé solo poteva andarsene fantasticando e fare suoi castelli in aria. Onde aveva cagione di volergli ben grande Cosimo suo maestro, perché se ne serviva talmente ne l’opere sue, che spesso spesso gli faceva condurre molte cose che erano d’importanza, conoscendo che Piero aveva e più bella maniera e miglior giudizio di lui. Per questo lo menò egli seco a Roma, quando vi fu chiamato da papa Sisto, per far le storie de la cappella, in una de le quali Piero fece un paese bellissimo, come si disse ne la vita di Cosimo. E perché egli ritraeva di naturale molto eccellentemente, fece in Roma di molti ritratti di persone segnalate e particularmente quello di Verginio Orsino e di Ruberto Sanseverino, i quali misse in quelle istorie. Ritrasse ancora poi il duca Valentino figliuolo di papa Alessandro Sesto; la qual pittura oggi, che io sappia, non si trova; ma bene il cartone di sua mano, et è appresso al reverendo e virtuoso Messer Cosimo Bartoli, proposto di San Giovanni. Fece in Fiorenza molti quadri a più cittadini, sparsi per le loro case, che ne ho visti de’ molto buoni, e così diverse cose a molte altre persone. E nel noviziato di San Marco in un quadro una Nostra Donna ritta col Figliuolo in collo, colorita a olio. E ne la chiesa di Santo Spirito di Fiorenza lavorò a la cappella di Gino Capponi una tavola, che vi è dentro una Visitazione di Nostra Donna, con San Nicolò et un S. Antonio, che legge con un par d’occhiali al naso, che è molto pronto. Quivi contrafece uno libro di carta pecora un po’ vecchio, che par vero, e così certe palle a quel San Niccolò con certi lustri ribattendo i barlumi, e riflessi l’una ne l’altra, che si conosceva in fino allora la stranezza del suo cervello, et il cercare che e’ faceva de le cose difficili. E bene lo dimostrò meglio dopo la morte di Cosimo, che egli del continuo stava rinchiuso, e non si lasciava veder lavorare, e teneva una vita da uomo più tosto bestiale che umano. Non voleva che le stanze si spazzassino, voleva mangiare all’ora che la fame veniva, e non voleva che si zappasse o potasse i frutti dell’orto, anzi lasciava crescere le viti et andare i tralci per terra, et i fichi non si potavono mai, né gli altri alberi, anzi si contentava veder salvatico ogni cosa come la sua natura, allegando che le cose d’essa natura bisogna lassarle custodire a lei senza farvi altro. Recavasi spesso a vedere o animali o erbe o qualche cosa, che la natura fa per istranezza et accaso di molte volte; e ne aveva un contento et una satisfazione che lo furava tutto a se stesso. E replicavalo ne’ suoi ragionamenti tante volte, che veniva talvolta, ancor che e’ se n’avesse piacere, a fastidio. Fermavasi tallora a considerare un muro, dove lungamente fusse stato sputato da persone malate e ne cavava le battaglie de’ cavagli e le più fantastiche città e più gran paesi che si vedesse mai; simil faceva de’ nuvoli de l’aria. Diede opera al colorire a olio, avendo visto certe cose di Lionardo fumeggiate e finite con quella diligenza estrema, che soleva Lionardo quando e’ voleva mostrar l’ [p. 22 modifica]arte, e così Piero piacendoli quel modo cercava imitarlo, quantunque egli fusse poi molto lontano da Lionardo e da l’altre maniere assai stravagante: perché bene si può dire che e’ la mutasse quasi a ciò ch’e’ faceva. E se Piero non fusse stato tanto astratto et avesse tenuto più conto di sé nella vita che egli non fece, arebbe fatto conoscere il grande ingegno che egli aveva, di maniera che sarebbe stato adorato, dove egli per la bestialità sua fu più tosto tenuto pazzo, ancora che egli non facesse male se non a sé solo nella fine e benefizio et utile con le opere a l’arte sua. Per la qual cosa doverebbe sempre ogni buono ingegno et ogni eccellente artefice ammaestrato da questi esempli aver gli occhi alla fine. Né lasciarò di dire, che Piero nella sua gioventù per essere capriccioso e di stravagante invenzione fu molto adoperato nelle mascherate che si fanno per carnovale. E fu a que’ nobili giovani fiorentini molto grato, avendogli lui molto migliorato e d’invenzione e d’ornamento e di grandezze e pompa quella sorte di passatempi; e sì di ciò, che fu de’ primi che trovasse di mandargli fuora a guisa di trionfi, o almeno gli migliorò assai, con accomodare l’invenzione della storia non solo con musiche e parole a proposito del subietto, ma con incredibil pompa d’accompagnatura di uomini a piè et a cavallo, di abiti et abigliamenti accomodati alla storia, cosa che riusciva molto ricca e bella, et aveva insieme del grande e dello ingegnoso. E certo era cosa molto bella a vedere, di notte, venticinque o trenta coppie di cavalli richissimamente abigliati co’ lor signori travestiti secondo il suggetto della invenzione, sei o otto staffieri per uno vestiti d’una livrea medesima con le torcie in mano, che tal volta passavano il numero di 400, et il carro poi, o trionfo pieno di ornamenti, o di spoglie e bizzarissime fantasie, cosa che fa assotigliare gli ingegni e dà gran piacere e satisfazione a’ popoli. Fra questi, che assai furono et ingegnosi mi piace toccare brevemente d’uno, che fu principale invenzione di Piero già maturo di anni, e non come molti piacevole per la sua vaghezza, ma per il contrario per una strana et orribile et inaspettata invenzione di non piccola satisfazione a’ popoli, che come ne’ cibi tal volta le cose agre, così in quelli passatempi le cose orribili pur che sieno fatte con giudizio et arte, dilettano maravigliosamente il gusto umano, cosa che aparisce nel recitare le tragedie: questo fu il carro della morte da lui segretissimamente lavorato alla sala del papa, che mai se ne potette spiare cosa alcuna ma fu veduto e saputo in un medesimo punto. Era il trionfo un carro grandissimo tirato da bufoli tutto nero e dipinto di ossa di morti, e di croci bianche, e sopra il carro era una morte grandissima in cima con la falce in mano, et aveva in giro al carro molti sepolcri col coperchio, et in tutti que’ luoghi che il trionfo si fermava a cantare s’aprivano et uscivano alcuni vestiti di tela nera, sopra la quale erano dipinte tutte le ossature di morto nelle braccia, petto, rene e gambe, che il bianco sopra quel nero, et aparendo di lontano alcune di quelle torcie con maschere che pigliavano col teschio di morto il dinanzi e ’l dirieto e parimente la gola, oltra al parere cosa naturalissima era orribile e spaventosa a vedere. E questi morti al suono di certe trombe sorde, e con suon roco e morto, uscivano mezzi di que’ sepolcri, e sedendovi sopra cantavano in musica piena di malenconia quella oggi nobilissima [p. 23 modifica]canzone:

Dolor, pianto e penitenzia, etc.

Era inanzi et adrieto al carro gran numero di morti a cavallo, sopra certi cavagli con somma diligenzia scelti de’ più secchi e più strutti che si potessino trovare con covertine nere piene di croci bianche, e ciascuno aveva 4 staffieri vestiti da morti con torce nere et uno stendardo grande nero con croci et ossa e teste di morto. Appresso al trionfo si strassinava 10 stendardi neri, e mentre caminavano con voce tremanti et unite diceva quella compagnia il Miserere, psalmo di Davit. Questo duro spettacolo per la novità, come ho detto, e terribilità sua, misse terrore e maraviglia insieme in tutta quella città, e se bene non parve nella prima giunta cosa da carnovale, nondimeno per una certa novità e per essere accomodato tutto benissimo, satisfece agli animi di tutti, e Piero autore et inventore di tal cosa ne fu sommamente lodato e comendato; e fu cagione che poi di mano in mano si seguitassi di fare cose spiritose e d’ingegnosa invenzione, che invero per tali suggetti e per condurre simil feste non ha avuto questa città mai paragone; et ancora in que’ vecchi che lo videro ne rimane viva memoria, né si saziano di celebrar questa capricciosa invenzione. Senti’ dire io a Andrea di Cosimo, che fu con lui a fare questa opera, et Andrea del Sarto, che fu suo discepolo e vi si trovò anche egli, che e’ fu opinione in quel tempo che questa invenzione fussi fatta per significare la tornata della casa de’ Medici del 12 in Firenze, perché allora che questo trionfo si fece erano esuli, e come dire morti che dovessino in breve resuscitare, et a questo fine interpretavano quelle parole che sono nella canzone:

Morti siam come vedete, così morti vedrem voi. Fummo già come voi siete, vo’ sarete come noi, etc.

volendo accennare la ritornata loro in casa, e quasi come una ressurrezzione da morte a vita, e la cacciata et abassamento de’ contrarii loro; o pure che fusse, che molti dallo effetto che seguì della tornata in Firenze di quella illustre casa, come son vaghi gli ingegni umani di aplicare le parole et ogni atto che nasce prima agli effetti che seguon poi, che gli fu dato questa interpretazione. Certo è che questo fu allora oppinione di molti e se ne parlò assai. Ma ritornando a l’arte et azzioni di Piero, fu allogato a Piero una tavola a la cappella de’ Tedaldi nella chiesa de’ frati de’ Servi, dove eglino tengono la veste et il guanciale di S. Filippo lor frate, nella quale finse la Nostra Donna ritta, che è rilevata da terra in un dado e con un libro in mano, senza il Figliuolo, che alza la testa al cielo, e sopra quella è lo Spirito Santo, che la illumina. Né ha voluto che altro lume, che quello che fa la colomba, lumeggi e lei e le figure che le sono intorno, come una S. Margherita et una S. Caterina che la adorano ginochioni, e ritti son a guardarla S. Pietro e S. Giovanni Evangelista, insieme con S. Filippo frate de’ Servi e S. Antonino arcivescovo di Firenze. Oltra che vi fece un paese bizzarro e per gli alberi strani e per alcune grotte, e per il vero ci sono parti bellissime, come certe teste che mostrano e disegno e grazia, oltra il colorito molto continovato. E certamente che Piero possedeva grandemente il colorire a olio. Fecevi la predella con alcune storiette piccole molto ben fatte; et in fra l’altre ve n’è una, quando S. Margherita esce dal ventre del serpente, che per aver [p. 24 modifica]fatto quello animale e contraffatto e brutto, non penso che in quel genere si possa veder meglio, mostrando il veleno per gli occhi, il fuoco e la morte, in uno aspetto veramente pauroso. E certamente che simil cose non credo che nessuno le facesse meglio di lui né le imaginasse a gran pezzo, come ne può render testimonio un mostro marino, che egli fece e donò al Magnifico Giuliano de Medici, che per la deformità sua è tanto stravagante, bizzarro e fantastico, che pare impossibile che la natura usasse e tanta deformità e tanta stranezza nelle cose sue. Questo mostro è oggi ne la guardaroba del Duca Cosimo de’ Medici; così come è anco pur di mano di Piero un libro d’animali de la medesima sorte, bellissimi e bizzarri, tratteggiati di penna diligentissimamente e con una pazienza inestimabile condotti. Il quale libro gli fu donato da Messer Cosimo Bartoli proposto di S. Giovanni, mio amicissimo e di tutti i nostri artefici, come quello che sempre si è dilettato et ancora si diletta di tale mestiero. Fece parimente in casa di Francesco del Pugliese intorno a una camera diverse storie di figure piccole, né si può esprimere la diversità de le cose fantastiche che egli in tutte quelle si dilettò dipignere, e di casamenti e d’animali e di abiti e strumenti diversi, et altre fantasie che gli sovennono per essere storie di favole. Queste istorie doppo la morte di Francesco del Pugliese e de’ figliuoli sono state levate né so ove sieno capitate. E così un quadro di Marte e Venere con i suoi amori e Vulcano, fatto con una grande arte e con una pazienza incredibile. Dipinse Piero per Filippo Strozzi vecchio, un quadro di figure piccole, quando Perseo libera Andromeda dal mostro, che v’è dentro certe cose bellissime. Il qual è oggi in casa il signor Sforza Almeni primo cameriere del duca Cosimo, donatogli da Messer Giovanni Batista di Lorenzo Strozzi conoscendo quanto quel signore si diletti della pittura e scoltura, et egli ne tien conto grande perché non fece mai Piero la più vaga pittura né la meglio finita di questa, atteso che non è possibile veder la più bizzarra orca marina né la più capricciosa di quella che si immaginò di dipignere Piero con la più fiera attitudine di Perseo, che in aria la percuote con la spada; quivi fra ’l timore e la speranza si vede legata Andromeda, di volto bellissima, e qua inanzi molte genti con diversi abiti strani sonando e cantando, ove sono certe teste che ridano e si rallegrano di vedere liberata Andromeda, che sono divine; il paese è bellissimo et un colorito dolce e grazioso, e quanto si può unire e sfumare colori, condusse questa opera con estrema diligenza. Dipinse ancora un quadro dove una Venere ignuda con un Marte parimente, che spogliato nudo dorme sopra un prato pien di fiori, et attorno son diversi amori, che chi in qua chi in là traportano la celata, i bracciali e l’altre arme di Marte; èvvi un bosco di mirto, et un Cupido che ha paura d’un coniglio; così vi sono le colombe di Venere e l’altre cose di amore. Questo quadro è in Fiorenza in casa Giorgio Vasari tenuto in memoria sua da lui perché sempre gli piacquero i capricci di questo maestro. Era molto amico di Piero lo spedalingo de li Innocenti, e volendo far fare una tavola, che andava all’entrata di chiesa a man manca alla cappella del Pugliese, la allogò a Piero, il qual con suo agio la condusse al fine, ma prima fece disperare lo spedalingo; che non ci fu mai ordine che la vedesse se non finita, e quanto ciò gli paresse strano, e [p. 25 modifica]per l’amicizia e per il sovenirlo tutto il dì di danari e non vedere quel che si faceva, egli stesso lo dimostrò, che all’ultima paga non gliele voleva dare se non vedeva l’opera. Ma minacciato da Piero che guasterebbe quel che aveva fatto, fu forzato dargli il resto, e con maggior collera che prima aver pazienza che la mettesse su, et in questa sono veramente assai cose buone. Prese a fare per una cappella una tavola ne la chiesa di S. Piero Gattolini, e vi fece una Nostra Donna a sedere con quattro figure intorno e due Angeli in aria che la incoronano. Opera condotta con tanta diligenzia che n’acquistò lode et onore; la quale oggi si vede in S. Friano sendo rovinata quella chiesa. Fece una tavoletta de la Concezzione nel tramezzo de la chiesa di S. Francesco da Fiesole la quale è assai buona cosetta, sendo le figure non molto grandi. Lavorò per Giovan Vespucci, che stava dirimpetto a S. Michele della via de’ Servi, oggi di Pier Salviati, alcune storie baccanarie che sono intorno a una camera, nelle quali fece sì strani fauni, satiri e silvani e putti e baccanti, che è una maraviglia a vedere la diversità de’ zaini e delle vesti, e la varietà delle cere caprine, con una grazia et imitazione verissima. Èvvi in una storia Sileno a cavallo su uno asino con molti fanciulli, chi lo regge e chi gli dà bere, e si vede una letizia al vivo fatta con grande ingegno. E nel vero si conosce in quel che si vede di suo uno spirito molto vario et astratto dagli altri, e con certa sottilità nello investigare certe sottigliezze della natura, che penetrano, senza guardare a tempo o fatiche, solo per suo diletto e per il piacere dell’arte; e non poteva già essere altrimenti perché innamorato di lei, non curava de’ suoi comodi e si riduceva a mangiar continuamente ovva sode che per rispiarmare il fuoco, le coceva quando faceva bollir la colla; e non sei, o otto per volta, ma una cinquantina, e tenendole in una sporta, le consumava a poco a poco. Nella quale vita così strattamente godeva, che l’altre appetto alla sua gli parevano servitù. Aveva a noia il piagner de’ putti, il tossir de gli uomini, il suono delle campane, il cantar de’ frati; e quando diluviava il cielo d’acqua, aveva piacere di veder rovinarla a piombo da’ tetti e stritolarsi per terra. Aveva paura grandissima de le saette, e quando e’ tonava straordinariamente, si inviluppava nel mantello e serrato le finestre e l’uscio della camera, si recava in un cantone finché passasse la furia. Nel suo ragionamento era tanto diverso e vario, che qualche volta diceva sì belle cose che faceva crepar dalle risa altrui. Ma per la vecchiezza vicino già ad anni 80, era fatto sì strano e fantastico che non si poteva più seco. Non voleva che i garzoni gli stessino intorno, di maniera che ogni aiuto per la sua bestialità gli era venuto meno. Venivagli voglia di lavorare e per il parletico non poteva. Et entrava in tanta collera che voleva sgarare le mani, che stessino ferme, e mentre che e’ borbotava, o gli cadeva la mazza da poggiare, o veramente i pennelli, che era una compassione. Adiravasi con le mosche, e gli dava noia infino a l’ombra; e così ammalatosi di vecchiaia e visitato pure da qualche amico, era pregato che dovesse acconciarsi con Dio. Ma non li pareva avere a morire, e tratteneva altrui d’oggi in domane. Non che e’ non fussi buono e non avessi fede, ché era zelantissimo, ancora che nella vita fusse bestiale. Ragionava qualche volta de’ tormenti che per i mali fanno distruggere i corpi e quanto stento patisce chi consumando gli spiriti a poco a poco si muore, il che [p. 26 modifica]è una gran miseria. Diceva male de’ medici, degli speziali e di coloro che guardano gli ammalati, e che gli fanno morire di fame; oltra i tormenti degli sciloppi, medicine, cristieri et altri martorii, come il non essere lasciato dormire, quando tu hai sonno, il fare testamento, il veder piagnere i parenti e lo stare in camera al buio; e lodava la giustizia, che era così bella cosa l’andare a la morte; e che si vedeva tanta aria e tanto popolo, che tu eri confortato con i confetti e con le buone parole; avevi il prete et il popolo, che pregava per te; e che andavi con gli Angeli in paradiso; che aveva una gran sorte, chi n’usciva a un tratto. E faceva discorsi e tirava le cose a’ più strani sensi che si potesse udire. Laonde per sì strane sue fantasie vivendo stranamente si condusse a tale, che una mattina fu trovato morto appiè d’una scala, l’anno MDXXI; et in San Pier Maggiore gli fu dato sepoltura. Molti furono i discepoli di costui, e fra gli altri Andrea del Sarto, che valse per molti. Il suo ritratto, s’è avuto da Francesco da S. Gallo che lo fece mentre Piero era vecchio, come molto suo amico e domestico; il qual Francesco ancora ha di mano di Piero (ché non la debbo passare) una testa bellissima di Cleopatra, con uno aspido avvolto al collo, e dua ritratti, l’uno di Giuliano suo padre, l’altro di Francesco Giamberti, suo avolo, che paion vivi.