Le rime di M. Francesco Petrarca/Canzone XXII

Sonetto LXXXIII Canzone XXIII

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CANZONE XXII.


     
M
Ai non vo’ più cantar com’io soleva:

     Ch’altri no m’intendeva, ond’ebbi scorno:
     E puossi in bel soggiorno esser molesto.
     Il sempre sospirar nulla rileva.
     5Già su per l’Alpi neva d’ogn’intorno:
     Ed è già presso al giorno; ond’io son desto.
     Un'atto dolce onesto è gentil cosa:
     Ed in donna amorosa anchor m’aggrada,
     Che ’n vista vada altera, e disdegnosa,
     10Non superba, e ritrosa.
     Amor regge suo imperio senza spada.
     Chi smarrit'ha la strada, torni indietro:
     Chi non ha albergo, posisi in sul verde:
     Chi non ha l’auro, o ’l perde,
     15Spenga la sete sua con un bel vetro.

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I’diè in guardia a san Pietro; or non più, nò:
     Intendami chi può; ch’i’ m’intend’io.
     Grave soma è un mal fio a mantenerlo.
     Quando posso, mi spetro; e sol mi sto.
     20Fetonte odo che ’n Po cadde, e morìo:
     E già di là dal rio passato è ’l merlo:
     Deh, venite a vederlo: or'io non voglio.
     Non è gioco uno scoglio in mezzo l’onde,
     E ’ntra le fronde il visco. Assai mi doglio
     25Quand'un soverchio orgoglio
     Molte virtuti in bella donna asconde.
     Alcun'è che risponde a chi nol chiama:
     Altri, chi ’il prega, si delegua, e fugge:
     Altri al ghiaccio si strugge:
     30Altri dì, e notte la sua morte brama.
Proverbio, ama chi t’ama, è fatto antico.
     I’ so ben quel ch’io dico. or lassa andare,
     Che convien ch’altri impare alle sue spese.
     Un’umil donna grama un dolce amico.
     35Mal si conosce il fico. A me pur pare
     Senno, a non cominciar tropp’alte imprese:
     E per ogni paese è buona stanza.
     L’infinita speranza occide altrui:
     Ed anch’io fui alcuna volta in danza.
     40Quel poco che m’avanza,
     Fia chi nol schifi, s’i ’l vo’ dare a lui.
     I’ mi fido in colui che ’l mondo regge,
     E ch’ e seguaci suoi nel bosco alberga;
     Che con pietosa verga
     45Mi meni a pasco omai tra le sue gregge.
Forse ch’ogni uom che legge, non s’intende:
     E la rete tal tende, che non piglia;
     E chi troppo assottiglia, si scavezza.
     Non fia zoppa la legge, ov’altri attende.
     50Per bene star si scende molte miglia.
     Tal par gran maraviglia, e poi si sprezza.

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     Una chiusa bellezza è più soave.
     Benedetta la chiave che s’avvolse
     Al cor’, e sciolse l’alma, e scossa l’ave
     55Di catena sì grave,
     E ’nfiniti sospir del mio sen tolse.
     Là dove più mi dolse, altri si dole:
     Et dolendo adolcisse il mio dolore:
     Ond’io ringrazio Amore,
     60Che più nol sento; ed è non men che suole.
In silenzio parole accorte, e sagge;
     E ’l suon che mi sottragge ogni altra cura;
     E la pregion’ oscura ov’è ’l bel lume:
     Le notturne viole per le piagge;
     65E le le fere selvagge entr’alle mura;
     E la dolce paura, e ’l bel costume;
     E di duo fonti un fiume in pace volto,
     Dov’io bramo, e raccolto ove che sia:
     Amor’, e gelosia m’hanno il cor tolto;
     70E i segni del bel volto,
     Che mi conducon per più piana via
     Alla speranza mia, al fin degli affanni.
     O riposto mio bene; e quel che segue;
     Or pace, or guerra, or tregue,
     75Mai non m’abbandonate in questi panni.
De’ passati miei danni piango, e rido,
     Perchè molto mi fido in quel ch’i’odo.
     Del presente mi godo, e meglio aspetto;
     E vo contando gli anni, e taccio, e grido;
     80E ’n bel ramo m’annido, ed in tal modo,
     Ch’i’ ne ringratio, e lodo il gran disdetto
     Che l’indurato affetto alfine ha vinto,
     E nell’alma dipinto, I’ sare’ udito,
     E mostratone a dito; ed hanno estinto.
     85Tanto inanzi son pinto,
     Ch’il pur dirò: Non fostu tanto ardito.
     Chi m’ha ’l fianco ferito, e chi ’l risalda;

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     Per cui nel cor via più che ’n carte scrivo;
     Chi mi fa morto, e vivo,
     90Chi in un punto m’agghiaccia, e mi riscalda.