Le rime di M. Francesco Petrarca/Canzone XI
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CANZONE XI.
Dentro le qua’ peregrinando alberga
Un signor valoroso, accorto e saggio,
Poi che se’ giunto a l’onorata verga,
5Colla qual Roma e suoi erranti correggi,
E la richiami al suo antico viaggio;
Io parlo a te, però ch’altrove un raggio
Non veggio di vertù, ch’al mondo è spenta;
Nè trovo chi di mal far si vergogni.
10Che s’aspetti non so, nè che s’agogni
Italia, che suoi guai non par che senta:
Vecchia, oziosa e lenta,
Dormirà sempre, et non fia chi la svegli?
Le man l’avess’io avolto entro e capegli.
15Non spero che giammai dal pigro sonno
Mova la testa per chiamar ch’uom faccia;
Sì gravemente è oppressa, e di tal soma.
Ma non senza destino alle tue braccia,
Che scuoter forte, e sollevarla ponno;
20È or commesso il nostro capo Roma.
Pon man' in quella venerabil chioma
Securamente, e ne le treccie sparte,
Sì, che la neghittosa esca del fango.
I'; che dì e notte del suo strazio piango;
25Di mia speranza ho in te la maggior parte:
Che se 'l popol di Marte
Devesse al proprio onor'alzar mai gli occhi;
Parmi pur ch'a' tuoi dì la gratia tocchi.
L'antiche mura ch'anchor teme ed ama,
30E trema 'l mondo, quando si rimembra
Del tempo andato, e 'ndietro si rivolve;
E i sassi dove fur chiuse le membra
Di tai che non saranno senza fama
Se l'universo pria non si dissolve;
35E tutto quel ch'una ruina involve,
Per te spera saldar ogni suo vizio.
O grandi Scipioni, o fedel Bruto,
Quanto v'aggrada, s'egli è ancor venuto
Romor laggiù del ben locato offizio!
40Come cre', che Fabbrizio
Si faccia lieto, udendo la novella!
E dice, Roma mia sarà ancor bella.
E se cosa di qua nel ciel si cura;
L'anime che lassù son cittadine,
45Ed hanno i corpi abbandonati in terra;
Del lungo odio civil ti pregan fine,
Per cui la gente ben non s'assicura;
Onde 'l cammin' a' lor tetti si serra;
Che fur già sì devoti, ed ora in guerra
50Quasi spelunca di ladron' son fatti,
Tal, ch'a' buon' solamente uscio si chiude;
E tra gli altari, e tra le statue ignude
Ogn'impresa crudel par che se tratti,
Deh quanto diversi atti!
55Nè senza squille s'incomincia assalto,
Che per Dio ringraziar fur poste in alto.
Le donne lagrimose, e 'l vulgo inerme
Della tenera etate, e i vecchi stanchi;
C'hanno sè in odio, e la soverchia vita;
60E i neri fraticelli, e i bigi, e i bianchi,
Con l'altre schiere travagliate, e'inferme,
Gridan', O signor nostro, aita, aita.
E la povera gente sbigottita
Ti scopre le sue piaghe a mille a mille,
65Ch'Anibale, non ch'altri, farian pio:
E se ben guardi a la magion di Dio
Ch'arde oggi tutt; assai poche faville
Spegnendo, fien tranquille
Le voglie, che si mostran sì 'nfiammate:
70Onde fien l'opre tue nel ciel laudate.
Orsi, lupi, leoni, aquile, e serpi
Aduna gran marmorea Colomna
Fanno noia sovente, e a sè danno:
Di costor piange quella gentil donna
75Che t'ha chiamato, acciò che di lei sterpi
Le male piante, che fiorir non sanno.
Passato è già più che 'l millesim'anno
Che 'n lei mancar quell'anime leggiadre
Che locata l'avean là dov'ell'era.
80Ahi nova gente oltra misura altera,
Irreverente a tanta, ed a tal madre!
Tu marito, tu padre;
Ogni soccorso di tua man s'attende:
Chè 'l maggior padre ad altr'opera intende.
85Rade volte adivien ch'all'alte imprese
Fortuna ingiuriosa non contrasti;
Ch'agli animosi fatti mal s'accorda.
Ora sgombrando 'l passo onde tu intrasti,
Fammisi perdonar molt'altre offese,
90Ch'almen qui da se stessa si discorda:
Però che quanto 'l mondo si ricorda:
Ad uom mortal non fu aperta la via
Per farsi, come a te, di fama eterno:
Che puoi drizzar, s'i' non falso discerno,
95In stato la più nobil monarchia.
Quanta gloria ti fia
Dir; Gli altri l’aitar giovene, e forte;
Questi in vecchiezza la scampò da morte!
Sopra ’l monte Tarpeo, Canzon, vedrai
100Un cavalier, ch’Italia tutta onora;
Pensoso più d’altrui, che di se stesso.
Digli: Un che non ti vide ancor da presso,
Se non come per fama uom s’innamora;
Dice che Roma ogni ora
105Con gli occhi di dolor bagnati, e molli
Ti chier mercè da tutti sette i colli.