Le prose di Bianca Laura Saibante Vannetti/Novella IV
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Novella IV
Letta a’ 29 Aprile 1751 in Accademia sotto il Reggimento del mio Enea.
La picciola Città nostra di Rovereto, che il chiaro Leno dall’uno de’ canti rapidamente correndo dall’antico Borgo di S. Tommaso diparte, fu, come ognuno di voi dee sapere, ad ognora abbondante nutrice di persone quanto amanti del forestiero, altrettanto piacevoli e risvegliate. Il perché noi la vedemmo da esso più che non voleva abitata, e mercé le sue prerogative bene spesso la udimmo ancora assaissimo commendare. Qui perciò un successo leggiadro, che nella persona d’un Giovane Cavaliere a’ tempi nostri accadde, mi piace brevemente narrarvi; il quale, come che gran viaggiatore e’ fosse, tutta volta del costume de’ nostri Gentiluomini e Gentildonne invaghito, volle fermarsi alquanto; e fattosi amico di certo piacevole Medico, in casa di esso prese alloggio. Era questi pertanto un ricco ed accostumato giovane, bello della persona, quanto virtuoso ed avvenente; ed un piccolo diffettuccio solo solo notar si seppe in Lui, il qual era talvolta una cert’aria di mattana che soffiava, la quale rendevalo sì stucchevole che niente più, quantunque da se stes[so] accorgendosi fugisse le persone, e durante questa passione tutto solo in camera rinchiuso si stasse. Il primo pertanto che sen’ avvide fu il Medico Padrone di casa, il quale presa compassione di Lui si cacciò in testa di volerlo rissanare; laonde, quando tempo gli parve opportuno, trattolo in disparte destramente, acciò la moglie non udisse il loro ragionare, così gli prese a dire: «Gentilissimo Cavaliere, che ben tale voi siete, io da che hommi la sorte di vedere dalla persona vostra cotanto onorata la casa mia, mai non ebbi in voi difetto, non che ombra di ciò scoperto, onde avviene ch’io non posso se non celebrare le molte vostre prerogative che, oltre alla nobiltà del sangue, di gran lunga ancor più chiaro vi rendono. Quindi è che, la menoma di queste possedendo, io a grandissimo capitale mi terrei d’essere. Un solo neo però che talvolta, secondo il corto mio intendimento, alcuna parte del vostro bello adombra, egli è quel troppo dar beccare all’umore, che in voi conobbi, della qual cosa, s’io ne sapessi la cagione, e’ mi sembra di aver in pronto il rimedio, che mi sia mozzo quanto capo io ho, se ad onore non ne riesco poi. Io già non era sì ardito di farvi intorno ciò parola se voi, molte fiate scoprendomi l’animo vostro, aperto non mi aveste il varco; perciò me non abbiate a sdegno perché tanto mi sono esteso, e qualor troppo di molestia non siavi per essere, narratemi, vi priego, le cagioni, che sì stare vi fanno impensierito». A cui il Giovane rivolto con lieto viso rispose: «Dell’amore che a me, quantunque di meriti privo, dimostrate, gentil Messere, assai prove già mi deste voi; ma questa io la considero per maggiore di tutte l’altre, intantoché, fino che quest’ossa reggeranno, vi sarò sempre tenuto, e mai non fia che dimentico ne viva; ma poiché piacevolmente più oltre di mie passioni mi sforzate a dire, ed eziandio rimedio per esse pensate avere, io a puntino, come sta la bisogna, a raccontarvi mi faccio, se sanabile il male sia o no, al Cielo e a voi ne rimetto poi la cura. So che la origine vi parrà strana; ma uditela, e ne stupite ancora poscia. Voi a sapere avete dunque ch’io allora, quando ancor fanciulletto la scuola incominciai di frequentare, solea co’ miei amici condiscepoli andarmene a diporto, quando pe’ vialetti del giardino con bastoni dietro a vipistrelli correndo e quando stanco sedermi sopra l’erbe molli d’un ameno pratello, ove degli stridenti grilli copiosissima caccia si faceva, che poi in picciole gabbie racchiusi meco godeva alle paterne case recare. Ora in questo loco mi ricorda appunto (ahi misero a me! quale spiacevole ricordanza è mai questa!) mi ricorda, io dissi, che una fiata sull’imbrunire della notte, stanco più del costume essendo, sulla nuda terra mi posi a sedere, e addormentaimi. I Genitori miei, che la cura riposta aveano nello staffiere, come quelli che menavano vita cavalleresca, nulla o poco di me avendo ricerco, per quella notte all’aria fosca riposarmi lasciarono. Ora, appena il Pianeta maggiore spandeva sull’alte montagne, gl’infocati raggi alle stelle già togliendo il lume, ch’io desto dal canto de’ vaghi augelletti gli occhi aprii tutto confuso, e con certo stridore in testa mi svegliai sì noioso che a capello assomigliava a quello de’ grilli. Il perché ben tosto m’avvidi che per que’ bucolini dell’orecchie del capo mio di molti grilli entrati erano: quindi è che d’ora in poi sì le nere bestiole per entro le cervella si son fitte, ed hanno tanto e poi tanto rifigliato, che rimedio io già non ispero ritrovarci più; e voi, caro Medico, stupisco che udite mai non l’abbiate, che pure strillano bene spesso e saltellano, come tante indiavolate: queste sono le cagioni d’ogni mia melancolia; quest’è quel neo che voi in me tanto accortamente avete notato». Il Medico udita la strana faccenda, poiché uomo scaltrito quanto mai altro era, avvisato essendosi d’onde quel male immaginario procedesse, anzi di contradire, gli diede il gambone prestamente così rispondendo: «Holli io ben spesso uditi sì questi vostri grilli; ma giuocato ci avrei del mio che fosseron dissotto del focolare annidati, oppure dietro a qualche anticaglia di armadio; ma se ho a dire il vero, la voce fuor del costume alquanto più gentile parendomi, nascer mi fece talvolta mille dubbi, che alla perfine da me medesimo non sapea che mi credere. Ora veggo ben che non hanno più loco le meraviglie, poiché ogni albero ancorché alpestre, se giammai in culto terreno trap= piantato viene, tosto a noi le frutta più delicate rende. Questo non pertanto vi dee molestare ch’io, se il Ciel m’aita, voglio prestamente rendervi libero e sano con certo rimedio che molto non sarà per recarvi noia». Laonde pregatolo che per lo spazio di due ore dovesse a occhi bendati starsi coricato sul letto in quella guisa che egli sarebbe per metterlo, ed il Cavaliere piacevolmente acconsentendo, recar si fece Messer lo Medico tutto affaccendato una nera benda, e legatagli la testa strettamente, sembiante fece d’ungergli le orecchie con unto, io non so, di che erbe, ed aggiustatolo sopra un cantuccio del letto, vicino al capo gli mise un cupo piatto con acque odorate ed alcuni tra piccioli grilli e grandicelli per entro, senza che il paziente nulla sapesse. Poscia qui solo nella stanza il rinchiuse ordinandogli che giammai quella positura non iscomponesse, con dire: «qui giace nocco; qui consiste la virtù di trarvi le brutte bestie di testa»; il che di fare gli promise. Quindi passate che furono le due ore prescritte, ritornò il Medico alla camera e, picchiato l’uscio forte, stando al di fuori gridò: «Vi dormite voi Signore?». A cui il Cavaliere: «Ma no che non mi sono potuto dormire, avvegnaché troppo in capo mi saltellavano i grilli, che mai sì fattamente non udii io già»; ed il Medico, affettando gravità, soggiunse: «Ora statevi chetto, ch’io verrò a vedere che mi par di voi; ed entrando con un paio d’occhiali su quel suo sperticato naso, venne al letto e, presosi in mano quel piatto, incominciò sì alla rifinita di gridare: «Portenti, portenti! Come fin qui vi siete potuto vivere voi? O stelle! Grilli, grilli, udite, mirate!». Al qual romore la moglie del Fisico accorrendo, «grilli grilli» gridava, senza saperne il perché; poscia tutti della casa «grilli grilli!»; talché il Cavaliere, sbendatisi gli occhi, saltando di letto e grilli tanti veggendo, non puoté se non farne anch’egli gran festoccia dicendo: «Ahi vedete, caro Messere, s’io n’avea di quelle bestie abbondanza? Oh sì che ora, vostra mercè, mi sento essere in tutto altro di quel di pria cangiato»; e presolo per mano disse: «Quanto cortesissimo uomo a voi la persona mia dee, poiché altri che voi non prestarono mai fede a’ miei mali, o perché strani, e non forse più intesi, o perché poco pratichi dell’arte loro», e fattogli mille ringraziamenti, si trasse di saccoccia un oriuolo d’oro bellissimo, ed in segno di aggradimento glielo donò. Ed il Medico lietissimo dell’evento, molto lodando il Cavaliere della lunga sofferenza in male tanto penoso, si prese il dono e, partito alquanto che fu da lui, cogli altri suoi amici, come quello che uomo faceto di molto era, raccontando loro il fatto, attese a farne le maggiori risate del Mondo.