Le prose di Bianca Laura Saibante Vannetti/Novella III

Novella III

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Sacra Narrazione Novella IV

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Novella III


Letta nella Tornata quarta dell’Accademia, a’ 28 Marzo 1751, sotto il Reggimento di mio Sig.re Fratello col nome di Antobasinio.


O Voi, che foste a novellare eletto
Il primo, e siete nel più orrevol loco,
Né superbia v’accechi né diletto,
Che alfin fortuna instabil dura poco:
Veggane chi nol crede in me l’effetto,
E poi s’egli ha ragion, si prenda giuoco;
ch’io qual Gonfalonier già licenziato,
D’Agiatissimo or son semplice Agiato.

Egli non è passato ancora molto che in Milano, eccellente Città Capitale di Lombardia, fuvvi un valente Cavaliere assai bel parlatore ma più del dovere bruttamente avaro il quale, avvegnaché di molti beni al sole avesse e ben fornito a danajo e’fosse, tutta fiata mai rifinava di ogni suo studio porre in accrescere l’arca; anzi, per mandare ad effetto quella ingordigia dell’oro, a servizio non teneva che uno staffiere ed una fante, amendue persone che di poco o nulla eran satolli. Soleva ancor cibarsi [p. 23 modifica]una sola volta il dì, e l’ordinarie vivande eran poche erbe, due lumache, una frittata d’un pajo d’uova, poco pane ed altrettanto di vino, tutto per risparmio con aceto condito; che olio e burro se alcuno de’ due servi durante l’anno in casa il Padrone annasarono, non voglia. Tutte queste vivande non erano recate sulle tavole pel solo Cavaliere, ma eziandio d’esse aveano a vivere lo staffiere e la fante. Accattava talvolta il sale ed il lume dal vicinato per non aver a spendere quattrini. Il suo vestire poi era sì misero che mettea compassione a vederlo. E talora degli amici - benché pochi n’avesse - venendo dall’intollerabile sua avarizia proverbiato, con dirgli: «Messere, chi ha il cavallo in istalla può andare a pié», soleva loro come Socrate rispondere, «È [che] non si vive a un bel bisogno - come voi fate a credere - sol per mangiare; ma bensì è [che] mangiasi per vivere. E s’io altresì non vesto poi tanto pomposamente come altri, fo da un par mio usando umiltà, cui dovrebbono tutti da me apparare». Il verno poi, affine di non abbruciar legne, godeva starsi tutto solo alla stufa di Diogene, come tuttora fanno le genti d’Iberia. E allorché di casa uscire faceva pensiero, ordini pressanti alla fante imponeva che, quando alcuno di fuoco od acqua ad imprestanza ne la chiedesse, tutto tutto negar gli dovrebbe, l’uno come spento, l’altra perché rasciugata nella fonte, e soggiungeale che, [p. 24 modifica]on pur essere picchiato l’uscio della buona fortuna, non pativa che esso le fosse aperto. Queste ed altre vergognosissime cose soleva questo unguento da cancheri alla giornata usare, che s’io a narrar tutte imprendessi, troppo più del dovere sarei stucchevole; laonde piacendomi ora di passarle in silenzio, vengo a certo caso che a cotesto cavaliere avvenne, il quale - come udiste - quanto avarone il vi mostrai, altrettanto ricco erasi. E perciò tutti gli anni dell’entrate proprie empiva il granajo di ogni sorte di biade, per l’esito delle quali attendeva con sollecita divozione la stagion novella a intenzione di ricavarne maggior prezzo che in altra riuscire non gli avrebbe potuto; e sempre questa sollecitudine gli tornava in bene: imperché oltremodo superbiva, e per questi suoi raggiri molto più si reputava di Cicerone, quasi che la maggior scienza degli uomini consistesse in quella di mercantantare a solo pensiero di divenir ricchi, asciugando le borse altrui senza punto di compassione. Accadde perciò che un anno, essendo al raccoglimento il grano fuor del costume in vantaggioso prezzo montato, egli sulla speranza che sempre più ad aumentare avesse, divisò seco stesso serbarne la vendita al solito tempo, avvisandosi di farne gran mercato; venuto il quale sempre impensierito si stava sull’incertezza ed empiva per ogni dove l’aria ed il palagio d’incre[p. 25 modifica]sciosi sospiri, pe’ quali amendue i servi oltremodo erano crucciosi e dolenti non sapendo cica della ragione. Ora un dì mentre questa pittima cordiale era tuttavia nella sua beva, venne a lui un certo suo castaldo portandogli non so che danajo, e d’uno in altro discorso passando con esso, costui innavvedutamente incominciò la provvidenza di Domeneddio a benedire, che il formento avea a buonissimo prezzo ridotto, aggiungendo a ciò mill’altre cose a sé favorevoli. Il qual ragionare udito il Cavaliere ed andandosene preso alle grida, mancò poco che non isvenisse di dolore e di rabbia; pur si trattenne, ma partito alquanto che fu da Lui il castaldo, più non poté raffrenar il dolore; laonde, senza altro volersi del fatto chiarire, andò a socchiudersi nella stanza sua, ove quasi lupo arrabbiato si diede a stridere ed urlare, mandando voci di compassione fino al Cielo e disperato imperversando come se ogni suo tesoro a perdere avuto avesse per lo scapito che fatto avea, sebben a paragone delle molte sue ricchezze non era che un bel nulla, intantoché di lui la fiera passion tiranna avendo preso possesso, il fece pigliar partito d’appiccarsi. Era ivi nella stanza per mala ventura un architrave, che secondo la vecchia usanza dall’uno all’altro lato delle pareti passando l’altre a sé minori travi sosteneva, fitto alla quale dall’uno de’ canti spenzolava una lunga corda forte di pelle bovina, che a sostenere qualunque [p. 26 modifica]s’è gran peso atta era; addocchiata perciò che l’ebbe, incominciò di farle tanti nodi fino che la ridusse di quella lunghezza che al suo intento gli parve opportuna; indi adattatovi sotto uno scanno, vi salì sopra e, rassettatosi al collo la corda aggiustata a mo’ di laccio, diede de’ piedi nello scanno e, cacciandosel di sotto, mise grandissimo fracasso, a cui il servo prestamente accorrendo e trovando il Padrone stranamente ivi appeso, fattosi coraggio, diede di piglio a non so che fosse di tagliente, e recisa la corda, non sostenne per quella volta che e’ dovesse dar beccare a’ polli del Prete, e recatolo sul letto e riscaldandolo attese a richiamare con aceto ed acqua fresca quell’anima rea ad abitare novellamente nella sua sede; la qual, come poco stette a ritornarvi, l’indiavolato avaronaccio boja, poiché ebbe gli occhi strabuzzati al cielo rivoltosi allo stalliere: «Chi fu, chi fu – gridò - che me tolse al riposo?»; a cui il servo: «A questa fiata l’aveste a buon mercato, Messer lo Cavaliere, onde a me si conviene fare buona mancia, che oltre l’avervi io all’ignominia tolto, alla morte eziandio vi ho rubato». Al che con torvo ciglio nuovamente soggiunse l’avarone: «La mancia, che a te s’aspetta, ella è che tu mi pagherai la corda che di tagliar osasti, la quale, bella e nuova essendo, non vale quel poco che tu ti dai scioccamente a credere». Il servo, che a somma fortuna a sé [p. 27 modifica]avea attribuito quel colpo, come s’udì dall’avaro Padrone tirare gli orecchi, anziché d’esserne premiato, «Diavol è – disse -, tenetevi tanto di mia pensione ch’in mano avete, che ben vaglia a comperarvi altra corda che da dovere vi strozzi»; e toltosi via dispettosamente dal Padrone, andonne come disperato alla ventura e voto solenne fece di mai più soccorrer uomini di tal fatta, confessando che il far del bene a cotestoro egli è appunto un lavare il capo all’asino. Ora andate voi a dire che la passion invecchiata non sappia farci perdere il senno, se condusse fino de’ più valenti uomini a darsi in preda della morte.