Le prose di Bianca Laura Saibante Vannetti/Novella V
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Novella V
Letta in Accademia a’ 31 Maggio 1751 sotto il Reggimento dell’Agiatissimo messer Biagiato.
Chi, e di qual paese, Carletto de Miorandi si fosse non occorre per avventura ch’io il vi stia qui raccontando, che a sufficienza il nostro valoroso Agiato Enea, coll’erudita sua penna, quanto veracemente, altrettanto leggiadramente ce lo ha dipinto. Adunque de’ costumi suoi non ne volendo far parola, più oltre mi fo a narrarvi certo bizzarro successo, che nella solazzevole persona dello stesso accadde. Voi perciò a sapere v’avete che, quando destro si sentia, tutto solo e appiè, spesse fiate mettevasi in cammino ora alla volta di Verona, e quando verso certe ville alla medesima Città non di molto discoste, drizzando i passi, a intenzione di far compera di ferro, od altro che pel suo mestiere gli era d’uopo d’avere, e talvolta semplicemente affine di spassarsela. Ora il solito costume seguitando, un mattino per tempissimo alzato essendosi, pensò che voglia tale gliene era venuta che ne scoppiava, d’andare appunto a Verona.
Quindi recatosi in mano una lunga canna col giubbetto da festa si mise in via, né mai ristette che alla Città si fu arrivato. Era già la notte ben avanti colle ore, quando e’ pervenne ad una certa osteria, la quale, conciossiaché alquanto d’abitazioni scarsa, l’oste qualor da più di cinque desse alloggio, dovea esso, e la moglie dormirsi co’ figliuoli, e colla fante. Qui perciò si pose forte a picchiare l’uscio da via, e tanto fracasso mise che infino i tassi sarebbonsi desti, non che tutti que’ che là per entro assonnavano; nulla meno l’oste solo, come quegli a chi non garbava il levarsi di letto, lo si comportava in pace, senza darsi briga di colui che sì forte picchiando la casa tutta, ed il vicinato assordava. Ma la mogliera alla per fine, presa compassione del forestiero, alzandosi arrabbiata cacciò Giannetto, che tal era il nome dell’Oste, a vedere chi mai per entrare in sua casa a quel punto venuto fosse. Il perché a male in corpo, calzate le brache ed affacciatosi alla fenestra, domandò: «Chi è costaggiù che sì m’annoja con sì fatto romore?». Carletto a quella voce tutto racconsolato, che non isperava per quella notte gli fosse aperto, avvegnaché persona non udì mai ne pur fiatare, rispose: «Deh’ l cortese Messere che voi vi dovete essere, se il cielo mai sempre vi mantenga sano e robusto, per cortesia non mi vogliate tenere più lungamente l’uscio, che di solo alloggio vi fo ricerca»; ma Giannetto, forte montato in bigoncia essendo, «Se d’altro non vi cale – disse - chiunque voi vi siate, da me ne vivete certo che affè noll’avrete, avvegnaddioché ogni stanza e letti già sono occupatissime da’ forestieri; e perciò pel vostro migliore andatevene con Dio, e non mi vogliate più là stuzzicare». Carletto, a cui nulla o punto garbava la risposta dell’Oste, si pose a scongiurarlo tuttavia, dicendogli che gli volesse aprire, che poi quando d’altro nol potea contentare, bastevolmente sarebbe egli pago rimasto se una qualche piccola cena apprestato gli avesse. Il che udendo lasciollo entrare e, isso fatto, gliela ebbe apparecchiata.
Seduto perciò a tavola che e’ fu, gran diceria tenne. Ma Giannetto, che voglia non forse meno di Carletto d’andare a letto si sentia, ricominciogli di dire: «Caro amico, or che cenato v’avete, come il resto della notte volete voi passarvi, se letto alcuno ozioso non c’è? poiché in quella stanza due mercatanti giaccionsi a dormire, là altri due signori, ed in questa poi, che è privilegiata, ci sta l’Arciprete di Lazise mio Compare, uomo dilicatissimo, amante di solitudine e pulitezza quanto mai altro». «Buon per me allora - Carletto, astutamente rottogli l’uovo in bocca, disse: «L’Arciprete mio qui entro giace? Cacalocchio! Bella cosa affé saria che se a lui non me ne andassi, giacché mio amicissimo egli è, e domani molto a male sel terria, quando a risapere venisse ch’io qui mi sono stato senza di lui far menzione. Perché vi prego volermi ad esso guidare, che assai volontieri cederammi un cantuccio del letto». Ma Giannetto, sorridendo, disse «ch’esser non può ch’egli accompagnato si soffra di dormire, che pur troppo a me è notissimo il suo costume; laonde a questa volta per me non saravvi tirato il chiavistello al certo, che io so ben io per tali derrate quali monete verrebbonmi pagate»; e Carletto tuttavia, infilzando filastrocche, si studiava farla bere all’oste che molto caro al Sere egli era. Il perché rivolto a lui, quasi per levarsi quella noja d’attorno, così gli disse: «Se voi dallo Arciprete sarete giammai in letto accolto, io sono contento di perdermi la cena che voi ingojata v’avete or’ ora»; «Ed io - disse Carletto - tutte quelle cose che meco recai ci giuoco, se dal medesimo verronne scacciato».
Così tutti e due in accordato rimasti che furono, Giannetto il guidò alla stanza dell’Arciprete. Allora Carletto ito là entro, d’ogni cosa spogliato essendosi, chettamente si pose sotto le lenzuola. Ma l’Arciprete, che di legger sonno era, a quel po’ di dimenio desto avendosi, gridò, cacciato il destro piè fuori del letto per paura: «Chi è che sì importuno d’appresso mi si corica?». Al che Carletto fece risposta con dire: «Dio vi guardi dalle mie mani». E l’Arciprete tuttavia: «Uno ribaldo se’ tu forse? Oh Ciel, chi mi difende?». E Carletto: «Io mi sono io, un ministro della Giustizia, che vengo or’ ora stanco di lontano paese, ove impiccare uno condannato mi è convenuto, e perciò non temete; ma bensì, presa di me compassione, con voi lasciate, caro Sere, ch’io giaccia; giacché sotto altronde accattare non mi sono potuto, onde coricarmi». Il povero Arciprete a tali parole qual si rimanesse, e come inorridito, Dio vel dica; e, pieno di rabbia e dispetto, precipitando quasi di letto sen corse alla stanza dell’oste, al quale molto bene risciacquò il buccato; così Carletto, contentissimo dell’evento, serratogli sulle calcagna l’uscio, ritornossi a letto, e tutto il rimanente della notte in sonno profondo la si passò. Il vegnente giorno poi attese che il sole facesse capolino per entro le fessure dell’impannate, affine di vederci meglio i fatti suoi; e quando tempo gli ebbe paruto che l’Arciprete dovesse essersi partito, sen venne a Giannetto, che ancora teneva fantasia per le rampogne del Sere; del che Carletto, avvisato essendosi, sì gli disse: «Caro Messere, assai bene sommi potuto dormire, della qual cosa ne so io grado alla fortuna, ed a voi». Ma l’oste, quasi della beffa scordato, credendo aversi d’innanzi uno giustiziere, quantunque niente niente a sangue gli andasse la perdita della cena, e della grazia del Sere, tutta volta, benché cola muffa al naso, salutollo, e di ciò che per cagion sua sostenuto avea non gli volle dir cica; così per quella fiata Carletto ritornossi a casa, la moglie
colla quale raccontandole la babuanaggine dell’oste, attese per più volte a farne grandissima festoccia.