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Gaio Valerio Catullo - Poesie (I secolo a.C.)
Traduzione dal latino di Mario Rapisardi (1889)
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O endecasillabi, qui v’adunate,
     Quantunque in numero, dovunque siate.

Son io sì debole, così dappoco
     Ch’una vil femmina mi prenda a gioco?

5Nega ella rendermi, se il tollerate,
     Tutte le pagine ch’io le ho mandate,

Su, su, incalziamola, diamle la caccia.
     Chi sia, chiedetemi, cotal donnaccia?

Ecco, vedetela, l’aria di mima,
     10Il turpe incedere ve ’l dice in prima,

E l’increscevole arte maligna,
     Onde, qual gallico can, sempre ghigna.

Fatele cerchio, stretti, feroci
     Sollecitatela con queste voci:

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15“O tu che traffichi te stessa e vendi,
     O sozza adultera, quei fogli rendi.

Non cavi un misero asse bacato,
     Feccia, postribolo, dal tuo mercato?”

Ma che! Gli asprissimi vostri furori
     20Son per tal femmina carezze e fiori.

Pur se alcun minimo rossor rimane
     Sopra quel ferreo ceffo di cane,

O endecasillabi, s’altro non giova,
     Con voce altissima gridate a prova:

25“O tu che traffichi te stessa e vendi,
     O sozza adultera, quei fogli rendi.”

Non ode? Immobile resta il suo core?
     Cambiate subito modo e tenore;

Con piglio amabile, con voce mite,
     30S’è pur giovevole, così le dite:

“Donna onestissima, casta, verace,
     Rendi le lettere, se non ti spiace.”