Le piacevoli notti (1927)/Notte seconda/Favola terza

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FAVOLA III.

Carlo d’Arimino ama Teodosia, ed ella non ama lui, perciò che aveva a Dio la verginitá promessa; e credendosi Carlo con violenza abbracciarla, in vece di lei abbraccia pentole, caldaie, schidoni e scovigli: e, tutto di nero tinto, da’ propi servi viene fieramente battuto.

[Lionora:]

La favola, donne mie care, dal Molino arteficiosamente raccontata, mi ha fatto rimovere da quella che mi era nell’animo di dire: e un’altra raccontar vi voglio, la quale, se non m’inganno, non sará di minor piacere alle donne, che fusse la sua a gli uomini. E quanto piú la sua fu lunga e alquanto sconvenevole, tanto piú la mia sará breve e onesta.

Dicovi adunque, piacevoli donne, che Carlo d’Arimino, sí come io penso alcuna di voi sapere, fu uomo guerreggievole, dispregiatore d’Iddio, bestemmiatore de’ santi, omicida, bestiale e dedito ad ogni specie di effeminata lussuria. E tanta fu la malignitá di lui, e tali e tanti i vizii dell’animo, che non aveva pare. Costui, essendo giovane leggiadro e riguardevole, fortemente s’accese dell’amore d’una giovanetta, figliuola d’una povera vedova; la quale, ancor che avesse bisogno e con la figliuola in gran necessitá vivesse, era però di tal condizione, che piú tosto si arrebbe lasciata morire da fame, che consentire la figliuola peccasse. La giovane, che Teodosia si chiamava, oltre che era bella e piacevole, era anche onesta, accostumata e di canuti pensieri dotata; e sí era intenta al divino culto e alle orazioni, che nell’animo le temporali cose al tutto sprezzava. Carlo adunque infiammato di lascivo amore di giorno in giorno la sollecitava e il dí che egli non la vedeva, da doglia si sentiva morire. Piú volte egli tentò con [p. 82 modifica]lusinghe, con doni e con ambasciate ridurla a’ suoi piaceri; ma egli nel vero s’affaticava indarno, perciò che, come giovane prudente e savia, ogni cosa rifiutava, e cotidianamente pregava Iddio che lo rimovesse da tai disonesti pensieri. Non potendo il giovane far piú resistenza all’ardente amore, anzi bestial furore, e ramaricandosi di esser refutato da colei che piú che la vita sua amava, propose nell’animo, intravenga che si voglia, di rapirla e contentare il suo concupiscibile appetito. Ma pur temea far tumulto, e che ’l popolo, che l’odiava molto, non lo uccidesse. Ma vinto dalla sfrenata voglia e divenuto come rabbioso cane, compose con duo suoi servi, uomini audacissimi, di volerla affatto rapire.

Laonde un giorno, ne l’oscurar della sera, egli prese le sue armi, e con i duo serventi se n’andò alla casa della giovane; e, trovato l’uscio aperto, prima che entrasse dentro, comandò a gli servi facessero buona guardia, nè, per quanto cara hanno la vita sua, lasciasseno alcuno entrare in casa o fuori uscire, fino a tanto che egli non ritornasse a loro. I servi, desiderosi di compiacere al suo padrone, risposero che farebbero quanto gli era da lui imposto. Avendo adunque Teodosia, con qual mezzo non so, la venuta di Carlo persentita, dentro d’una povera cucina subito soletta si rinchiuse. Salito allora Carlo su per la scala della picciola casa, trovò la vecchia madre, la quale, fuori d’ogni sospizione d’essere in tal guisa salita, a filare si stava: e dimandolle della figliuola sua, da lui tanto desiata. L’onesta donna, veduto che ebbe il giovane lascivo armato, piú tosto al mal fare che al bene tutto inchinevole, molto si smarrí, e nel viso, come persona morta, pallida divenne, e piú volte volse gridare; ma pensando che nulla farebbe, prese partito di tacere e metter l’onor suo nelle mani d’Iddio, in cui molto si fidava. E preso pur alquanto d’ardire, e voltato il viso contra a Carlo, cosí gli disse: — Carlo, non so con qual animo e con qual arroganza sei tu qui venuto a contaminare la mente di colei che onestamente viver desidera. Se tu sei venuto per bene, Iddio, munerator del tutto, ti dia ogni giusto e onesto contento; ma quando altrimenti fusse, il [p. 83 modifica]che Iddio no ’l voglia, tu faresti gran male a voler con vituperio conseguire quello che non sei per mai avere. Spezza adunque e rompi cotesta sfrenata voglia, nè vogli tuore alla figliuola mia quello che tu rendere non le puoi giamai, cioè l’onor del corpo suo. E quanto piú tu sei di lei innamorato, tanto ella maggior odio ti porta, essendo tutta data alla virginitá.

Carlo, udite le compassionevoli parole della vecchiarella, assai si turbò; nè per questo si mosse dal suo fiero proponimento, ma come pazzo si mise per ogni parte della casa a ricercarla: e, non la ritrovando, al luoco della picciola cucina se ne gí, e trovatala rinchiusa, pensò che ella, come era, dentro vi si fusse: e guatando per una fissura della porta vide la Teodosia che in orazioni si stava, e con dolcissime parole la cominciò pregare che aprire lo volesse, in tal guisa dicendo: — Teodosia, vita della mia vita, sappi che io non sono qui venuto per macolare l’onor tuo, lo quale piú che me stesso amo, e lo reputo mio: ma per accettarti per propria moglie, quando ed a te ed alla madre tua fusse a grado. Ed io vorrei esser omicida di colui che l’onor tor ti volesse. — Teodosia, che attentamente ascoltava le parole di Carlo, senza altro indugio rispondendo cosí disse: — Carlo, rimoviti da cotesto pertinace volere; perciò che per moglie mai non sei per avermi, perchè la mia virginitá offersi a colui che ’l tutto vede e regge. E quantunque a mio mal grado con violenza il corpo mio macchiasti, non però la ben disposta mente, la quale dal principio del mio nascimento al mio fattor donai, contaminar potresti. Iddio ti diede il libero arbitrio, acciò tu conoscesti il bene e il male, e operasti quello che piú ti aggrada. Segui adunque il bene, che sarai detto virtuoso, e lascia il contrario, che è detto vizioso. —

Carlo, dopo che vide nulla giovare le sue lusinghe, e sentendosi rifiutare, nè potendo piú far resistenza alla fiamma che gli abbrusciava il cuore, come giovane piú furibondo che prima, lasciate le parole da canto, l’uscio, il quale non molto forte nè molto sicuro era, con poca difficultá ad ogni suo [p. 84 modifica]buon piacere aperse. Entrato adunque Carlo nella piccioletta cucina, e veggendo la damigella piena di grazia e d’incomprensibile bellezza, dell’amor suo piú furiosamente imfiammato, pensò ogni suo disordinato appetito allora del tutto adempire: e se le aventò addosso, non altrimenti che volonteroso ed affamato veltro alla timidetta lepre. Ma la misera Teodosia, avendo li biondi capei sparsi dopo le spalle, ed essendo tenuta stretta nel collo, divenne pallida e debole, di modo che quasi piú movere non si poteva. Laonde ella levò la mente al cielo, ed a Iddio dimandò soccorso. Appena era fornita la mentale orazione, che Teodosia miracolosamente sparve, ed a Carlo Iddio sí fortemente abbarbagliò il lume dell’intelletto, che piú cosa buona non conoscea, e credendo egli di toccar la damigella, abbracciarla, basciarla e in sua balía averla, altro non stringeva, altro non abbracciava nè basciava se non pentole, caldaie, schidoni, scovigli ed altre simili cose che erano per la cucina. Avendo giá Carlo saziata la sua sfrenata voglia, ed il vulnerato petto da capo moversi sentendo, corse ancora ad abbracciar le caldaie, non altrimenti che le membra di Teodosia fussero. E sí fattamente il volto e le mani dalla caldaia tinte rimasero, che non Carlo, ma il demonio pareva.

In questa guisa adunque avendo Carlo saziato il suo appetito, e parendogli oggimai tempo di partirsi, cosí di nero tinto scese giú della scala. Ma i duo servi che presso l’uscio facevano la guardia che niuno entrasse o uscisse, veggendolo cosí contrafatto e divisato in viso, che piú di bestia che di umana creatura la sembianza teneva, imaginandosi che il demonio o qualche fantasma egli si fusse, volsero come da cosa mostruosa fuggire. Ma fattisi con miglior animo all’incontro, e guatatolo sottilissimamente nel volto, e vedutolo sí diforme e brutto, di molte bastonate il caricorono, e con le pugna, che di ferro parevano, tutto il viso e le spalle li ruppero, nè li lasciorono in capo capello che bene gli volesse: nè contenti di ciò, lo gittorono a terra, stracciandogli e panni da dosso e dandogli calzi e pugna, quante mai ne puote portare; e tanto spessi erano i calzi che e servi li davano, che mai Carlo non [p. 85 modifica]puote aprire la bocca ed intendere la causa per che cosí crudelmente lo percotevano. Ma pur tanto fece, che uscí delle lor mani: e via se ne fuggí, pensando tuttavia averli dietro le spalle. Carlo adunque essendo da’ suoi servi senza pettine oltra modo carminato, ed avendo per le dure pugna gli occhi sí lividi e gonfi, che quasi non discerneva, corse verso la piazza gridando e fortemente ramaricandosi de’ servi suoi che l’avevano sí maltrattato. La guardia della piazza, udendo la voce ed il lamento che egli faceva, gli andò all’incontro, e veggendolo sí diforme e col viso tutto impiastracciato, pensò lui esser qualche pazzo. E non essendo da alcuno per Carlo conosciuto, ognuno il cominciò dileggiare e gridare: — Dalli, dalli, che gli è pazzo: — e appresso questo alcuni lo spinghievano, altri gli sputavano nella faccia ed altri prendevano la minuta polve e glie la aventavano ne gli occhi. E cosí in grandissimo spazio di tempo lo tennero, infino a tanto che ’l rumore andò alle orecchie del pretore; il quale, levatosi di letto e fattosi alla finestra che guardava sopra la piazza, dimandò che era intravenuto, che cosí, gran tumulto si faceva. Uno della guardia rispose che era un pazzo che metteva la piazza tutta sotto sopra. Il che intendendo, il pretore comandò che, legato, li fusse menato dinanzi. E cosí fu essequito. Carlo, che per lo adietro era da tutti molto temuto, vedendosi esser legato, schernito e maltrattato, nè sapendo che era isconosciuto, assai di ciò seco si maravigliava. Ed in tanto furore divenne, che quasi ruppe il laccio che legato lo teneva. Essendo adunque Carlo condotto dinanzi al pretore, subito il pretore lo conobbe che egli era Carlo da Arimino: nè puote altro imaginare, salvo che quella lordura e disformitá procedeva per causa di Teodosia, la quale egli sapeva che sommamente amava. Laonde cominciò lusingarlo ed accarezzarlo, promettendogli di punire coloro che di tal vergogna erano stati cagione. Carlo, che ancora non sapeva che egli paresse un etiopo, stava tutto sospeso; ma poscia che chiaramente conobbe lui esser di bruttura tinto, che non uomo ma bestia pareva, pensò quello istesso che ’l pretore imaginato s’aveva. E mosso a sdegno, giurò di tal ingiuria [p. 86 modifica]vendicarsi, quando il pretore non la punisse. Il Rettore, venuto il chiaro giorno, mandò per Teodosia, giudicando lei aver fatto ciò per magica arte. Ma Teodosia, che tra sè considerava il tutto ed ottimamente conosceva il pericolo grande, che le poteva avvenire, se ne fuggí ad uno monasterio di donne di santa vita: dove nascosamente dimorò, servendo a Dio tutto il tempo della vita sua con buon cuore. Carlo dopo fu mandato allo assedio di uno castello, e volendo fare maggiori prove di ciò che li convelleva, fu preso come vil topo a trapola; perciò che volendo ascendere le mura del castello e primo mettere lo stendardo del papa sopra li merli, fu colto da una grossa pietra, la quale in tal maniera il fracassò e ruppe, che non puote appena dir sua colpa. E cosí il malvagio Carlo, come meritato aveva, senza sentire vero frutto del suo amore, la sua vita miseramente finí. —