Le ore inutili/Ritratto a pastello
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IL RITRATTO A PASTELLO.
Discutevano da quasi mezz’ora, il giovine schermendosi con parole vaghe e perplesse, la donna indagando con una ostinazione che diveniva a grado a grado impaziente. Finalmente egli disse:
— Hai ragione. Oggi io sono diverso, oggi io ti devo confessare qualche cosa di abbastanza grave e mi è mancato fino ad ora il coraggio di farlo. Devi darmelo tu questo coraggio, tu che sei una piccola donna forte, capace di affrontare sola la vita e tutte le sue sorde ostilità. Confortami tu, Ottavia, a parlare. Dimmi che sarai indulgente e clemente col tuo povero amico che ha paura, che ha paura di te.
Ottavia Dimauro che ascoltava, adagiata nell’angolo del divano giallo-oro, coi capelli neri sciolti sulla spalliera come un viluppo di serpenti foschi, con le spalle nude e i fianchi avvolti strettamente in una spirale di seta d’un color violaceo pallido che le scopriva i piedi rosei nelle babbucce orientali ricamate di perle, lasciò sfuggire una lunga risata non più gaia e non ancora beffarda, volgendosi a fissare Dino Altavilla, seduto accanto a lei, nell’altro angolo del divano giallo-oro.
— Mio povero amico, tu hai paura di me? Ci conosciamo ormai da due anni e mezzo ed è questa la prima volta ch’io ti scopro una sensibilità così tremebonda e che mi riconosco una così terribile forza. Che cosa dunque accade di tanto spaventevole?
— Spaventevole? — ripetè Dino Altavilla con un breve sogghigno. — Non esageriamo. Ho detto soltanto che si tratta di una cosa importantissima, la quale non mi giunge, d’altronde, improvvisa poichè la prevedevo da almeno sei mesi. È un fatto che, del resto, non ha nulla di spiacevole, tranne l’impressione, la prima impressione che tu ne potrai riportare. Ed è appunto ciò che mi costringe ad esitare tanto dinanzi a te, prima di decidermi a confessarti questa semplice realtà.
Ottavia lo lasciò parlare sino alla fine, attese ancora alcuni minuti, fissandolo con lo sguardo interrogativo, la confessione di quella semplice realtà e, constatando che il momento della rivelazione non era ancora giunto, si strinse nelle spalle con una piccola smorfia sdegnosa, poi s’alzò, mosse alcuni passi sul folto tappeto persiano che copriva interamente l’impiantito della vasta camera gialla.
Giallo era il broccato della coperta sul letto disfatto, gialla, incrostata di merletti di Venezia, la seta delle tende alle due finestre altissime, d’un chiaro giallino il legno di cedro dei mobili e le due poltroncine basse ai lati del tavolino da tè, e di un intenso oro caldo a riflessi di rame la grande cornice ovale che occupava la parete al disopra del divano, la cornice preziosa la quale racchiudeva un delicato pastello: il ritratto di Ottavia Dimauro.
Ella sollevò il capo e si fermò dinanzi a quell’altra se stessa, così somigliante pur nella leggera nebulosità del colore sfatto che le parve di vedersi in fondo ad uno specchio antico, un po’ velato dalla polvere e dal tempo, oppure in fondo ad un’acqua stagnante in una luce di crepuscolo.
Scendeva difatti la prima ombra della sera dai vetri chiusi dietro le cortine leggere, e la violenza ardente di colore da cui traeva tanto risalto la particolare bellezza di quella donna bruna e pallida come un’andalusa, si fondeva ora dolcemente in un’armonia più discreta e più raccolta.
I larghi occhi neri di Ottavia fissavano i larghi occhi neri del ritratto che apparivano immensi e profondi nella penombra.
Era stato quello sguardo immenso e profondo, segnato con pochi tratti di colori da un pittore grande e modesto, ora morto, ad avvicinare quasi d’improvviso i loro destini in un amore durato oltre due anni e pieno di tumultuosa intensità di vita.
Dino Altavilla vi si era fermato dinanzi in una esposizione d’arte, lo aveva osservato contemplato meditato interrogato a lungo, per molti giorni, finchè si era risolto ad acquistarlo per giungere a conoscere, se veramente esisteva, la creatura umana a cui splendevano in volto quegli occhi.
Codesta creatura umana esisteva, era una giovane signora sola, che abitava una villa in una piccola città di provincia, dove il pittore, passando per svago un’estate, le aveva fatto, per proprio diletto, il bel ritratto a pastello.
Il permesso di venderlo ad un ammiratore sconosciuto che il ritrattista le chiese per iscritto, il gentile consenso della signora e una successiva lettera di ringraziamento di Altavilla gli porsero l’occasione di una corrispondenza cortese, a cui seguì ben presto un incontro e quando, poche settimane più tardi, il nuovo amico la pregò di venire ad ammirare il ritratto in una cornice e in un ambiente degni della bella opera d’arte e della bella opera umana ch’esso rappresentava, Ottavia Dimauro fu accolta in quell’appartamento lussuoso e misterioso, a terreno d’una villetta suburbana, dove ogni cosa era stata scelta e disposta con una sapiente cura d’amore.
Da allora ella vi era ritornata ogni settimana, vi aveva talvolta passato giorni e giorni, notti e notti, in quella completa libertà di esistenza che il suo stato di donna sola, separata da un marito ignobilmente vizioso, le concedeva.
— Io e quell’altra me stessa, lassù — diceva Ottavia, accennando al pastello chiuso nella sua cornice d’oro, — abbiamo passato qui dentro, in persona o in ispirito, quasi due anni e mezzo di vita, eppure mi accorgo in questo momento che, se le tue labbra, Dino, e le mie labbra si sono tante volte avvicinate, le nostre anime invece sono rimaste infinitamente lontane.
— Non è vero, non è vero. Perchè dici così? — mormorò egli corrucciato, afferrandola d’un tratto alla vita e piegandola riluttante verso di sè. — Non ti ho dato per oltre due anni tutto me stesso?
— Tutto, forse, meno la tua fiducia e la tua confidenza — ella rispose, rigida, negandosi per la prima volta alle sue carezze. — Da parecchi mesi c’è nella tua vita qualche cosa di molto importante e tu me lo nascondi per timore d’una mia sgradevole impressione. E questo si chiama, per te: dare tutto se stesso?
— Ottavia, non parlarmi con tanta asprezza, te ne prego — egli la supplicò, umile, baciando con avidità le sue mani che lo allontanavano.
Ella rise, ancora più aspra nell’ostentazione della gaiezza che nelle fredde parole e andò a guardarsi nel triplice specchio dell’armadio, seguendovi con gli occhi torbidi sotto le ciglia socchiuse ogni atteggiamento ed ogni moto del giovine, tuttora affondato nell’angolo del divano. Egli s’era stretto la tempia fra le palme e restava a fissare il suolo con lo sguardo assorto e la fronte corrugata. Balzò in piedi, come per incitarsi a una improvvisa risoluzione, e movendo alcuni passi le venne vicino.
— Ascolta.
Seduta in una delle basse poltrone presso il tavolino da tè, ella aspirava con una espressione di voluttà esagerata un mazzo di violette languenti in una coppa di cristallo verde. Non si mosse quando egli le fu accanto, non si mosse quando egli si inginocchiò ai suoi piedi, sorridendo con una tenerezza alquanto impacciata.
— Ascoltami, cara.
— Ti sei deciso a rivelarmi la semplice realtà?
Ella sogghignò sollevando il viso dalle violette languenti, poi sospirò a lungo sbattendo le palpebre come se si destasse da un sogno, e la crudeltà del suo sogghigno contrastava così singolarmente con lo smarrimento voluttuoso degli occhi che il giovine, chino alle sue ginocchia, ne tremò di desiderio e quasi di rancore.
— Ebbene, — egli confessò con finta semplicità, — fra dieci giorni prendo moglie.
Ottavia tornò a chinare il viso sulle viole e tacque per un lungo momento.
Quando lo sollevò, esso rassomigliava stranamente al ritratto a pastello nel colore sfatto delle gote e delle labbra, nell’ombra che riempiva l’incavo degli occhi. Sulla bocca pallida si disegnava lo stesso sorriso di prima, ma quasi contorto in una piega amara.
— Davvero? — ella disse con un piccolo sussulto delle spalle.
— Sì, — susurrò Altavilla, prendendole i polsi. — Ecco la notizia che non avevo il coraggio di darti. Essa non è poi così spaventevole come pareva. Non è vero?
— Difatti.... — ella mormorò ambiguamente, guardando i propri polsi ch’egli stringeva fra le sue dita, quasi perchè ella non gli sfuggisse.
— Difatti — il giovine ripetè. — Questo non muterà nulla di ciò che è stato e di ciò che è fra di noi. Io sposo mia cugina, la solita cugina imposta dalla volontà dei cari genitori ai soliti figlioli docili, tranquilli e morigerati come me. Mia cugina è giovane, ricca e non ha nulla di particolarmente ripugnante perchè io rifiuti la sua mano.
— E tu, naturalmente, non la rifiuti — ella concluse, scotendo il capo più volte, quasi per convincere lui e se stessa di questa inoppugnabile verità.
— È evidente — ammise il giovane, alzando lentamente le spalle, come a soppesarvi la lievità del giogo a cui esse si assoggettavano con tanta docile calma.
— Nemmeno se, accettando la mano di tua cugina, tu dovessi perdermi per sempre?
La domanda inattesa giunse dopo una prolungata pausa di meditazione e vi succedette un’altra pausa piena di stupore.
— Ciò che tu dici è assurdo — le osservò il giovine, più sgomento di quanto non volesse apparire.
— Sarà assurdo, ma è l’espressione più semplice e più vera del mio pensiero, — ribattè con una risoluta e pacata fermezza la donna. — Mi sei appartenuto esclusivamente per oltre due anni, o almeno io ebbi di questo esclusivo possesso l’assoluta convinzione. Non posso e non voglio condividerti consciamente con un’altra donna, sia pure tua cugina, sia pure una moglie che ti è imposta dalla parentela. Ti prego, anzi, ti impongo di scegliere fra lei e me, ossia di rinunziare definitivamente all’una o all’altra.
Dino Altavilla l’ascoltò in piedi, a ciglia corrugate, torcendo la bocca in una espressione di tedio irritato.
— Io non vedo affatto la necessità di correre ad un ultimatum di questo genere — tentò di scherzare con qualche ironia — e di creare un dramma di una situazione così semplice. Esistono infiniti uomini che posseggono insieme una moglie tollerata e un’amante adorata, senza essere costretti a rinunziare all’una o all’altra. Sono queste le vicende più comuni della società moderna.
— Ebbene, le vicende più comuni della società moderna non fanno al caso mio, e non le accetto — proruppe aspramente Ottavia, alzandosi d’impeto ed incominciando a ravviarsi con gesti nervosi i capelli dinanzi allo specchio dell’armadio.
Il giovine girò la chiavetta della luce e la camera gialla parve riempirsi di uno sfolgorante sole meridiano sotto il quale la bellezza appassionata della donna splendette di un così meraviglioso risalto che egli tremò di perderla per sempre con altre imprudenti parole.
— Tronchiamo questo colloquio, cara. Non parliamo più di simili cose spiacevoli. È meglio ch’io me ne vada e che ci rivediamo più calmi, domani, — le susurrò nel collo tentando, senza riuscirvi, di baciarla. — A domani, dunque. Addio.
Ella non si volse neppure. Continuò ad appuntarsi nei capelli le forcine di tartaruga che teneva fra i denti e quando ne tolse l’ultima stirò le labbra ad un sogghigno amaro, ripetendo come un’eco spenta il saluto dell’amante:
— Addio.
Lo vide sparire dietro la portiera di damasco giallo e allora soltanto s’abbandonò tutta sul divano, e chiuse gli occhi in un’espressione di spasimo disperato.
— Addio, addio, addio, — gemette tra aridi singhiozzi, torcendosi sotto la violenza dello strazio, premendosi sul cuore dolente le mani rattratte. — Addio, addio.
Poi balzò in piedi e si guardò attorno smarritamente, come per salutare un’ultima volta le cose familiari che sapevano il suo amore, che lo avevano per tanto tempo accolto e tutelato benigne.
Il ritratto a pastello le ricambiò il suo sguardo accorato, la fissò con quegli occhi immensi e profondi che rassomigliavano ai suoi, ch’erano i suoi, parve dirle con taciturna angoscia: — E io resterò qui sola mentre tu andrai lontano. Quest’altra te stessa rimarrà qui, vedrà forse un amore che non sarà più il tuo, assisterà a una gioia e a un dolore che ti saranno ignoti, soffrirà dell’inganno e del tradimento e non potrà non guardare, non potrà chiudere i suoi occhi immensi e profondi. Dovrà vedere, sapere e sarai tu che vedrai e saprai.
Allora Ottavia Dimauro salì sul divano giallo, sciolse il cordone d’oro che assicurava alla parete il quadro e lo discese cautamente, cautamente lo depose a terra, sul tappeto persiano.
Il cristallo terso e sottile che proteggeva la figura scintillò sotto la luce intensa delle lampade ed ella posò il piede su quegli occhi che la guardavano ancora, ve lo premette con tutto il suo peso, con tutta la sua forza. Il vetro cedette scricchiolando, le fenditure s’allargarono in forma di raggi sino alla cornice, e la donna s’inginocchiò, ne tolse un primo frammento lungo e acuminato come un pugnale, poi un secondo e un terzo. Scoperse i colori tenui e sfatti del pastello, mise a nudo l’intero ritratto già gualcito e già martoriato dal suo piede, liberò dalla loro trasparente custodia quegli occhi che la guardavano ancora, interrogando.
Ma non si fermò nella sua opera di distruzione. Strappò dalla cornice il cartoncino ovale segnato dalla mano del grande maestro morto e con le dita convulse, tuttora inginocchiata sul tappeto, ella lo lacerò in due, in quattro, in innumerevoli lembi e li disperse al suolo, con un piacere acre, con un sorriso di blanda follia diffuso sul volto, col petto e le tempia pulsanti di un battito febbrile.
Quindi s’alzò, sedette sfinita sul divano e contemplò quella rovina con un senso di commiserazione così profonda per se medesima e per il suo amore che un’onda di pianto le salì dal cuore straziato.
Ma quando sollevò le mani per ricoprirsene il volto e premersi le palpebre brucianti di lacrime, s’avvide che le sue dita sanguinavano, ferite dai frammenti acuminati del cristallo, s’avvide che sui chiari disegni del tappeto, sul broccato giallo del divano, sulla vestaglia di seta violacea erano cadute le stille intensamente vermiglie del suo sangue, come tanti piccoli segni visibili della sua sofferenza, come le stigmate palesi del suo dolore.
E con una struggente malinconia ella pensò che queste vi sarebbero rimaste.