Le odi di Orazio/Libro secondo/XIII

Libro secondo
XIII

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Quinto Orazio Flacco - Odi (I secolo a.C.)
Traduzione dal latino di Mario Rapisardi (1883)
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XIII.


Quegli in nefasto giorno piantavati,
    Chiunque fosse, quei con sagrilega
        Man t’educava, arbore, a danno
        4De’ nepoti e del borgo a vergogna:

Del proprio padre, sì, posso crederlo,
    Schiacciò la testa e le case intime
        Col sangue dell’ospite a notte
        8Sparse, e i colchi veleni e qual sia

Di più nefando mai l’uomo immagini,
    Trattò chi pose te, legno lugubre,
        Nel mio campo, te poi caduco
    12Sovra il capo al padrone innocente.

A schivar mali non è mai cauto
    L’uomo abbastanza: il nocchier tinio
        Abomina il Bosforo, e ciechi
        16Fati, altronde, oltre a quello non teme;

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Il guerrier frecce di Parto e celere
    Fuga; catene il Parto ed itala
        Virtù; ma improvvisa la Morte
        20Rapirà, qual rapito ha, le genti.

E lei da presso e di Proserpina
    Oscura i regni io vidi e il giudice
        Eaco e de’ pii le distinte
        24Sedi e Saffo lagnantesi delle

Plebee fanciulle su cetra eolia,
    E te più forte sonante all’aureo
        Plettro, o Alceo, gli affanni durati
        28Sopra il mar, nell’esilio, tra l’armi.

E l’ombre in sacro silenzio ammirano
    D’entrambi i degni canti; ma il popolo
        Più le pugne e i tiranni espulsi
        32Tutto orecchie, addossandosi, beve.

Qual meraviglia, se la centícape
    Belva a quei carmi dechina attonita
        L’atre orecchie, e ricreansi i serpi
        36Delle Eumenidi attorti alle chiome?

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Prometeo anch’esso e il padre a Pelope
    Lor pena al canto soave ingannano,
        Nè cura Orione agitare
        40I leoni e le timide linci.