Le odi di Orazio/Libro quarto/VII
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VII
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VII.
Dimojaron le nevi, già l’erbette ritornano a’ campi,
Agli alberi le chiome;
Muta aspetto la terra; le fiumane decrescono, e in mezzo
4Corrono a le due ripe;
La Grazia con le Ninfe e con l’altre sorelle si attenta
Guidar le danze ignuda.
Non sperar cose eterne, l’anno e l’ora ne avvisa che porta
8Rapida il dì fecondo.
Tempra Zefiro i freddi; peritura l’estate conculca
La primavera, come
Il pomifero autunno disperde le biade, e la bruma
12Inerte ecco ritorna.
Pure a’ danni del cielo dan ristoro le celeri lune;
Noi, se colà cadiamo
Dove già il padre Enea, dove Tullo ricchissimo ed Anco,
16Polvere siamo ed ombra.
Chi sa, se all’odierna somma i Numi sovrani vorranno
Aggiungere il domani?
Fugge l’avide mani dell’erede quel tanto c’hai dato
20Dell’animo a’ piaceri.
Quando una volta sii tramontato, e il giudizio solenne
Minosse abbia a te fatto,
Non rifarà i tuoi danni l’alta stirpe, la lingua faconda,
24Nè la pietà, o Torquato:
Però che nè Diana dalle tenebre inferme il pudico
Ippolito ritoglie.
Nè i vincoli di Lete può spezzare di Teseo la forza
28Al caro Piritòo.