Le odi di Orazio/Libro quarto/VII

Libro quarto
VII

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Quinto Orazio Flacco - Odi (I secolo a.C.)
Traduzione dal latino di Mario Rapisardi (1883)
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VII.


Dimojaron le nevi, già l’erbette ritornano a’ campi,
                Agli alberi le chiome;
Muta aspetto la terra; le fiumane decrescono, e in mezzo
                4Corrono a le due ripe;

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La Grazia con le Ninfe e con l’altre sorelle si attenta
                Guidar le danze ignuda.
Non sperar cose eterne, l’anno e l’ora ne avvisa che porta
                8Rapida il dì fecondo.

Tempra Zefiro i freddi; peritura l’estate conculca
                La primavera, come
Il pomifero autunno disperde le biade, e la bruma
                12Inerte ecco ritorna.

Pure a’ danni del cielo dan ristoro le celeri lune;
                Noi, se colà cadiamo
Dove già il padre Enea, dove Tullo ricchissimo ed Anco,
                16Polvere siamo ed ombra.

Chi sa, se all’odierna somma i Numi sovrani vorranno
                Aggiungere il domani?
Fugge l’avide mani dell’erede quel tanto c’hai dato
                20Dell’animo a’ piaceri.

Quando una volta sii tramontato, e il giudizio solenne
                Minosse abbia a te fatto,
Non rifarà i tuoi danni l’alta stirpe, la lingua faconda,
                24Nè la pietà, o Torquato:

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Però che nè Diana dalle tenebre inferme il pudico
                Ippolito ritoglie.
Nè i vincoli di Lete può spezzare di Teseo la forza
                28Al caro Piritòo.