Le notti romane/Parte prima/Proemio: Occasione dell'opera
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Proemio
Occasione dell’opera.
Da che io apersi i volumi degli antichi, e spaziandomi in essi
conobbi la grandezza dello stile non meno che quella delle imprese,
fui percosso da tal maraviglia, che rimase a quella etá fiso
il mio pensiero. Fra le nazioni antiche però la Romana sovrasta a
tutte come gigante per la vastitá delle opere sue, e fra tutte risplende
per quella sua indole eroica spirante un orgoglio generoso.
A’ Romani pertanto era per lunga consuetudine cosí rivolto il
mio intelletto, che li contemplava come presenti nel silenzio della
solitudine. Quindi se avveniva che per le tacite selve o lungo
i flebili ruscelli io andassi a diporto, senz’altri testimoni de’ miei
pensieri che l’aura e gli augelli, la mente, ingolfata in quelle meditazioni,
si lanciava quasi da queste membra a’ secoli remoti.
E tanto crebbe con lo studio questa disposizione, che talvolta
mi si accendeva nel petto lo strano e tormentoso desiderio di
vedere, e ragionare con alcuna larva degli antichi evocandola dagli
abissi della morte. La quale ansietá sfogava anche l’illustre
Petrarca sforzandosi varcare i secoli interposti, ed in alcun modo
vivere con gli antichi; imperocché scrisse lettere a Cicerone, a
Seneca, a Livio ed a Vairone, le quali si leggono nelle opere sue.
E si narra pur di Pomponio Leto che vivendo in Roma, ed ampiamente
versato nell’antica erudizione, soleva contemplare ogni
avanzo della prima grandezza con tanto senso di dolce ammirazione,
che talvolta fu veduto piangere alla presenza delle ruine,
rimanervi immoto, e co’ pensieri occupati in estatica meditazione.
Volendo io pertanto ornai concedere a’ miei sensi la piú soave soddisfazione che lor mancava, mi avviai dalle pianure Insubri
verso l’augusta Roma, oggetto delle perpetue mie speculazioni.
Chiunque abbia alquanto gustate le delizie dell’antica erudizione, mi fará testimonianza quali palpiti senta il cuore, allorché scendendo l’Apennino, la via declina alla celebrata cittá. Le pupille sono intente a scoprire la sommitá de’ sette colli, il petto brama lanciarsi tra’ preziosi monumenti, ogni pietra di antico edifizio per la via è materia di dotte congetture e di immagini deliziose. Giá entrato nella via Flaminia io rammemorava l’antica sua magnificenza da Rimini fino alla cittá, e il nome che ancora le rimane di quel consolo spento per la patria nella battaglia contro Annibaie al lago Trasimeno, E mentre l’intelletto era occupato da questa ebrezza di pensieri, entrai nella augusta porta, sembrandomi pur tanta la maestá di tale ingresso, da mantenere nell’animo quella grata illusione per cui mi credea entrare nella immensa e marmorea cittá di Augusto. Le estreme delizie quanto piú si sentono con l’animo, tanto meno si possono esprimere con le parole. Mi conviene perciò trapassare in silenzio quelle che m’inondarono il petto ne’ primi giorni veggendo il sacro Tevere, gli egiziani obelischi, i templi ancora foschi del vapore de’ sacrifizi, l’anfiteatro Flavio, il quale giace come gigante sbranato, e le colonne che descrivono le costumanze della milizia, e gli archi trionfali, e lo spazio del Foro, ed i mausolei, e le ruine maestose de’ circhi e delle terme, e quanti avanzi della romana splendidezza empiono l’animo di soave maraviglia.
Era quella stagione in cui i nembi ristorano la terra dall’estivo ardore. Sembra che il cielo, terso da quelli, risplenda piú zaffirino. Rinverdiscono le piante e le erbe illanguidite, e con la freschezza loro imitano la primavera. Tacea ornai la cicala stridente, e invece garrivano lieti gli augelli ricreandosi all’aura molle, ignari di quelle insidie che pur in tale stagione loro tenderebbero i nostri diletti struggitori. Suonò per la cittá una voce mirabile, che si fossero allora(a) scoperte le tombe de’ Scipioni, lungo tempo invano ricercate. Quindi io, tralasciando la con
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I monumenti degli uomini illustri sogliono infondere nell’animo una dolce tristezza assai piú grata del tripudio di gioia romorosa, per chi sia inchinevole a pensierosa tranquillitá. Giá il velo della notte ingombrando l’aere, favoriva la calma ed il silenzio convenevole al mio proponimento. Un villereccio abituro sorge su le tombe scipioniche, alle quali conduce uno speco sotterraneo simile a covile di fiere. Per quella scoscesa alquanto ed angusta via giunsi agli avelli della stirpe valorosa. Alcuni erano poc’anzi sgombrati dalle ruine, ed altri vi rimanevano ancora. Vidi confuse con le zolle e con le pietre biancheggiare le ossa illustri al lume della face, la quale io stringea per guida a’ passi miei. Io la volsi di poi lentamente d’ogni intorno, contemplando quanto fossero offese dalla marra quelle spoglie meritevoli d’alabastro, ed ora divenute ludibrio della plebe e de’ curiosi. Ma i dotti peregrini, che sogliono concorrere a contemplare con delizie erudite questa cittá, mostravano in qual pregio tenessero tali spoglie. Molti ne raccolsero, e le recarono di poi alle remote patrie loro, dove le custodirono ammiratori di stirpe cosí chiara. Illustri donne straniere ivi scesero mosse da quella fama: né solo stancarono i molli piedi inoltrandosi con malagevoli passi in quelle caverne, ma con le candide mani raccolsero que’ tristi segni della umana caducitá. Io pertanto considerava dolente come avessi fra’ piè gli ossami di coloro i quali ancora empievano il mondo con la fama, e come forse il braccio di alcuno d’essi, ministro di vittorie, o il capo altero fosse ivi franto, vilipeso, calpestato.
Sono quelle tombe venerevoli per la modestia loro, formate quando i Romani non bramavano splendere con la magnificenza, ma con la virtú. Composte di vii pietra, sculte rozzamente, vi stanno i nomi e le gesta neppure incise, ma pinte con delebile rubrica da tanti secoli avventurosamente non scancellata. Narrano quelle inscrizioni, con brevi e moderate sentenze, i pregi della stirpe valorosa, e sono le parole dell’antica lingua del Lazio nella sua semplicitá. — Ecco sorge ancora, — io dicea fra me stesso, — il monumento di Caio Cestio, sulle imprese del quale è cosí muta la fama, che invano le ricerchi ne’ volumi. La tomba orgogliosa ci trasmise a stento il nudo nome senza gloria. Or come ti compiaci, barbara fortuna, di turbare queste ceneri gloriose dopo averle serbate per tanti secoli sotto le ruine? —
Mentre la mente mia era immersa in queste considerazioni, il vento notturno, penetrando all’improviso per l’ingresso dello speco, estinse, con dispettoso alito, nella mia destra la face. Io quantunque per questa ingiuria fossi privato, quasi per súbita cecitá, del godimento di quegli oggetti, pur non ne fui tristo, perocché quanto avea perduto nella vista, altrettanto acquistai nell’intelletto divenuto in quella solitudine e in quel silenzio vie piú contemplativo. Giá la mente s’ingolfava nel pelago tenebroso, giá scendevano i pensieri nel regno inconsolabile della morte, e secondo l’antica loro consuetudine erano ansiosi di ragionare co’ trapassati. Quand’ecco udii un flebile mormorio uscire dal profondo, composto di suoni inarticolati con lenta cantilena. Parea vento che freme nelle valli. Tremolava insieme la terra sotto i miei piedi, e l’aura tenebrosa ronzava come sciame. Erano le ossa agitate negli avelli, e percuotendone le pareti interne, suonavano come aride stipe. Sembrava che i coperchi, sollevandosi alquanto, cadessero poi sulle labbra delle tombe alla postura loro, perocché in quella oscuritá io udiva uno strepito corrispondente a tale effetto. Allora in me prevalse la fievolezza umana al generoso desiderio, perché sentii scorrere per le membra un gelido ribrezzo. Del quale, chiunque sia discreto ne’ suoi giudizi, non mi potrá biasimare considerando ch’io stava ad un cimento superiore alla solita costanza degli animi nostri.
Quindi fu l’aura in silenzio, e fermo il suolo. Rilucea dentro gli avelli uno splendore fosforico, dal quale incominciarono a sorgere alcuni volti umani con lento progresso. Apparvero quindi le braccia con le quali sostenevano i soprastanti coperchi, e poi vidi tutte le tombe spalancate, e colme di larve, le quali stando in quelle mostravano soltanto la parte superiore della persona. V’erano fanciulli e adolescenti, e di questi appariva solo il capo e parte del petto; altre erano immagini virili, e queste si mostravano sino a’ fianchi. Stavano le matrone in modesto contegno, coperte col velo, se non che talune lo sgombravano alquanto dal volto loro sollevandone il lembo con la mano. Erano alcune fronti giovanili tanto copiose di capelli, che ne rimaneano occupate le sembianze. Questi pertanto li divideano con le mani a mezzo del volto; altri li gettavano dietro gli omeri; quelli mostravano ancora, nella calvezza e ne’ capelli canuti, essere trapassati in anni senili. Aveano le fanciulle, spente nella primavera della vita, floride le sembianze, quantunque oscurate dal tristo letargo della morte. Avvegnaché tutte quelle immagini teneano da prima le palpebre dimesse, e come gravate dal sonno eterno, e poscia innalzandole a stento, rivolgeano a me con tardo moto le pupille.
Rimaneano cosí quasi non ancora ben deste, quando vidi, nella piú remota cavitá di quegli antri, splendere la fosforica luce, e insieme avvicinarsi con maestoso portamento una larva, simile alle immagini consolari, avvolta in candida toga. Il volto benigno spirava una dolce dignitá: denotava quel tempo che declina alla vecchiezza, ma non vi è giunto; solo a vederla conciliava rispetto, destava la maraviglia. All’apparire della quale tutte le altre uscirono dalle tombe, e la circondarono con segni manifesti di onorarla. Mormoravano anche in suono simile a’ gemiti, il quale esprimere io non posso. Si collocarono poscia intorno a lei in atteggiamenti di ascoltarla: quella stette nel mezzo con autorevole modo, ed io sommesso rimasi appoggiando il fianco ad un avello. Lo stupore, la riverenza non solo mi frenavano le parole dentro le fauci, ma l’alito stesso mi rattenevano affan noso.