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misero tremebondo e disperato dibattevasi fra le gagliarde strette di quelle salde e robuste spire, i due serpenti rinnannellandosi al collo, e inarcando il dorso, gli si avventarono rabbiosi al cranio, e sì furiosamente lo addentavano e rodevano, che sotto quei fieri morsi si sentiva scrosciare come fosse una secca crosta di pane. Il sangue spicciava a sprazzi dal dilaniato capo, e misto alla immonda bava dei serpenti, filava giù a gran copia fino a terra, ove impozzando aggrumava. Il cervello, già in gran parte scoperto, si vedeva roso e sbrizzato ricascare palpitante ancora, sospeso a filamenti membranosi, e coi grommi del sangue appiastrarsi agl’irti capelli.

Ma perchè forse quello strazio era scarsa pena alle colpe di quello sgraziato, a colmo di tormento gli usciva con veemenza dalla gola ardentissima una fiamma, la quale invisibilmente alimentata, gli avviluppava e investiva la lingua atrocemente cuocendola.

A breve distanza dal calunniatore era fitto nel pavimento un toppo, la di cui altezza poteva dare a mezza vita d’uomo; sopra il toppo era posto a schisa, e prolungato ad angolo semiretto fino a terra, un massiccio pancone, sul quale era disteso supino lo spergiuro. Conficcato il misero su quel legno da un lungo e grosso chiodo, che gli traforava il capo, da due altri che gli chiavavan le mani, e da un terzo che gli trapassava i piedi, era costretto a soffrire immobile tutta la forza dell’orribile tormento, con cui la Divina giustizia lo torturava, perchè ogni piccolo movimento, anche un fremito solo, il martirio gli accresceva e addoppiava.

La di lui lingua, che pareva fosse stata divelta e sradicata dalle fauci, era tutta fuori della bocca, e stava sottoposta ad una lampana infocata, dalla quale