Le mie prigioni/Cap XXVIII
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Capo XXVIII.
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Quel quinternetto aveva anche alcune delle mie ore a lui consacrate, e talvolta un intero giorno od un’intera notte. Ivi scriveva io di cose letterarie. Composi allora l’Ester d’Engaddi e l’Iginia d’Asti, e le cantiche intitolate: Tancreda, Rosilde, Eligi e Valafrido, Adello, oltre parecchi scheletri di tragedie e di altre produzioni, e fra altri quello d’un poema sulla Lega lombarda, e d’un altro su Cristoforo Colombo.
Siccome l’ottenere che mi si rinnovasse il quinternetto, quand’era finito, non era sempre cosa facile e pronta, io faceva il primo getto d’ogni componimento sul tavolino o su cartaccia in cui mi facea portare fichi secchi o altri frutti. Talvolta dando il mio pranzo ad uno dei secondini, e facendogli credere ch’io non aveva punto appetito, io l’induceva a regalarmi qualche foglio di carta. Ciò avveniva solo in certi casi, che il tavolino era già ingombro di scrittura, e non poteva ancora decidermi a raschiarla.
Allora io pativa la fame, e sebbene il custode avesse in deposito denari miei, non gli chiedea in tutto il giorno da mangiare, parte perché non sospettasse ch’io avea dato via il pranzo, parte perché il secondino non s’accorgesse ch’io aveva mentito assicurandolo della mia inappetenza. A sera mi sosteneva con un potente caffè, e supplicava che lo facesse la siora Zanze1. Questa era la figliuola del custode, la quale, se potea farlo di nascosto della mamma, lo faceva straordinariamente carico; tale, che, stante la votezza dello stomaco, mi cagionava una specie di convulsione non dolorosa, che teneami desto tutta notte.
In questo stato di mite ebbrezza io sentiva raddoppiarmisi le forze intellettuali, e poetava e filosofava e pregava fino all’alba con meraviglioso piacere. Una repentina spossatezza m’assaliva quindi: allora io mi gettava sul letto, e malgrado le zanzare, a cui riusciva, bench’io m’inviluppassi, di venirmi a suggere il sangue, io dormiva profondamente un’ora o due.
Siffatte notti, agitate da forte caffè preso a stomaco voto, e passate in sì dolce esaltazione, mi pareano troppo benefiche, da non dovermele procurare sovente. Perciò, anche senza aver bisogno di carta dal secondino, prendeva non di rado il partito di non gustare un boccone a pranzo, per ottenere a sera il desiderato incanto della magica bevanda. Felice me quand’io conseguiva lo scopo! Più d’una volta mi accadde che il caffè non era fatto dalla pietosa Zanze, ed era broda inefficace. Allora la burla mi metteva un poco di mal umore. Invece di venire elettrizzato, languiva, sbadigliava, sentiva la fame, mi gettava sul letto, e non potea dormire.
Io poi me ne lagnava colla Zanze, ed ella mi compativa. Un giorno che ne la sgridai aspramente, quasi che m’avesse ingannato, la poveretta pianse, e mi disse: — Signore, io non ho mai ingannato alcuno, e tutti mi danno dell’ingannatrice.
— Tutti? Oh sta a vedere che non sono il solo che s’arrabbii per quella broda.
— Non voglio dir questo, signore. Ah s’ella sapesse!... Se potessi versare il mio misero cuore nel suo!...
— Ma non piangete così. Che diamine avete? Vi domando perdono, se v’ho sgridata a torto. Credo benissimo che non sia per vostra colpa che m’ebbi un caffè così cattivo.
— Eh! non piango per ciò, signore. —
Il mio amor proprio restò alquanto mortificato, ma sorrisi.
— Piangete adunque all’occasione della mia sgridata, ma per tutt’altro?
— Veramente sì.
— Chi v’ha dato dell’ingannatrice?
— Un amante. —
E si coperse il volto dal rossore. E nella sua ingenua fiducia mi raccontò un idillio comico-serio che mi commosse.
Note
- ↑ Angiola