Le immagini
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XXXVIII.
LE IMMAGINI.1
Licino e Polistrato.
Licino. Così forse avveniva a quei che vedevan la Gorgone, come dianzi avveniva a me, o Polistrato, che vedevo una bellissima donna. Poco mancò, come dice la favola, che di uomo non ti divenni sasso, sì gelai dello stupore.
Polistrato. Oh! la dev’essere un nuovo miracolo di bellezza se una donna colpisce Licino: che piuttosto i garzoni fanno in te questo effetto; e saria più facile smuovere monte Sipilo, che spiccar te dai leggiadri donzelli, innanzi ai quali ti rimani a bocca aperta, con gli occhi fissi e spesso imbambolati, che pari proprio la figliuola di Tantalo.2 Ma dimmi, chi è cotesta Medusa che impietrisce? e di qual paese? che vorrei vederla anch’io. Non avrai invidia, credo, che io la vegga, nè t’ingelosirai se voglio anch’io gelare riguardandola da vicino.
Licino. Ed io ti so dire che se pur di lontano tu la vedessi, ti cadrebbe il fiato, e resteresti più immoto d’una statua. E forse non saria sì grave e sì mortale la ferita, se tu vedessi lei; ma se ella riguardasse te, come mai potresti più spiccarti da lei? T’allaccerebbe, ti tirerebbe dov’ella vuole, come la calamita il ferro.
Polistrato. Via, o Licino, non tante mirabilia di cotesta bellezza, e dimmi chi è la donna.
Licino. Tu credi che io esageri, ed io temo che tu vedendola dirai che te n’ho detto poco: tanto ella ti parrà maggiore d’ogni lode. Chi ella sia non ti saprei dire: ma aveva un gran treno, vestimenta sfoggiate, eunuchi ed ancelle molte, e insomma pareva di condizione maggiore che privata.
Polistrato. E non t’informasti del nome, come si chiamava?
Licino. No: solamente so che è di Jonia. Perchè mentr’ella passava, uno dei tanti che la riguardavano voltossi ad un vicino, e disse: Eccoti la bellezza di Smirne: e non è maraviglia se la bellissima delle città joniche produsse questa bellissima donna. Mi parve anche di Smirne colui che parlava, tanto si gloriava di lei.
Polistrato. E tu l’hai fatta proprio da una pietra a non muoverti affatto, a non andarle appresso, a non dimandar quello smirnese, chi ella era. Almeno fammene una pittura, come puoi, con le parole; che forse così la riconoscerò.
Licino. Pensi tu che cosa mi dimandi? Altro che parole ci vogliono, e poi le mie, per ritrarre un’immagine così mirabile, che appena o Apelle, o Zeusi, o Parrasio parrebbon da tanto, pure se uno fosse Fidia o Alcamene. Io guasterò l’originale per manco di arte.
Polistrato. Pure, o Licino, dimmi che viso ella aveva. Che non è un ardire pericoloso, se ad un amico ne ritrai l’immagine, comunque vada il disegno.
Licino. Ebbene per mettermi al sicuro voglio chiamare all’opera alcuni degli antichi artefici, affinchè mi rappresentino essi questa donna.
Polistrato. Che vuoi dire ora? e come ti aiuteranno essi, che son morti da tanti anni?
Licino. Facilmente; se non ti grava di rispondermi un po’.
Polistrato. Dimanda pure.
Licino. Sei stato mai, o Polistrato, nella città dei Cnidii?
Polistrato. Oh, sì.
Licino. Dunque hai certamente veduto la loro Venere?
Polistrato. Sì, per Giove! la più bella delle opere di Prassitele.3
Licino. E udisti anche la favola che narrano i cittadini intorno a lei, come uno s’innamorò della statua, e nascosamente rimastosi nel tempio, si congiunse, come potè, con quella statua. Ma di ciò ti conterò un’altra volta: tu, giacchè dici di aver veduta questa, rispondimi un’altra cosa. E quella degli Orti in Atene, la Venere d’Alcamene, la vedesti mai?
Polistrato. Oh, sarei il più trascurato del mondo, se non avessi vista la più bella statua di Alcamene.
Licino. Non ti dimanderò, o Polistrato, se tu montando spesso su la cittadella, rimirasti la Sosandra di Calamide.
Polistrato. Anche questa ho mirata spesse volte.
Licino. E queste bastano. Mae delle opere di Fidia quale più ti piacque?
Polistrato. Quale? la Lennia;4 vi scrisse anche il suo nome Fidia; e l’Amazzone appoggiata all’asta.
Licino. Le più belle, o amico mio. Sicchè non c’è bisogno di altri artefici. Or io ti mostrerò, come posso, un’immagine composta di tutte queste, e che abbia il meglio di ciascuna.
Polistrato. Ed in qual modo può farsi cotesto?
Licino. Non è difficile, o Polistrato, se ora mettiam quelle immagini in mano all’Eloquenza, e le diam facoltà di ornare in altro modo, e comporre, e armonizzare il più acconciamente che può, serbando unità insieme e varietà.
Polistrato. Bene: se le pigli, e faccia ella. Voglio vedere come ne userà, e come di tante componendo una sola, non la farà sconcia.
Licino. Or vedi come ella fa l’immagine, così componendola. Da quella di Cnido piglia il solo capo; che il resto del corpo, che è nudo, non bisogna: la chioma, la fronte, e le ben delineate sopracciglia diamogliele come le fece Prassitele; negli occhi mettile quella languidezza, quel riso, quella grazia che Prassitele mise in quelli; le gote e tutto il dinanzi del viso le dia Alcamene da quella degli Orti; ed anche la
sveltezza delle mani, la proporzion delle palme, e la mollezza delle dita sottili in punta da quella degli Orti. Fidia le darà il contorno di tutta la faccia, la schiettezza delle guance, la simmetria del naso della sua Lennia; e la compostezza della bocca, ed il collo dell’Amazzone. Calamide l’adornerà della verecondia della sua Sosandra, e di quello stesso sorriso dignitoso e lieve: e le darà l’acconcezza e decenza delle vesti anche della Sosandra, se non che ella avrà scoperto il capo. E che statura le daremo? Quella della Venere di Cnido: ce ne darà la misura anche Prassitele. Che ti pare, o Polistrato? sarà bella l’immagine?
Polistrato. E specialmente quando sarà compiuta al punto. Chè ancora manca, o amico mio, una bellezza alla tua statua, nella quale le hai adunate tutte.
Licino. E quale?
Polistrato. Non la più piccola, o amico; se pure non credi che conferisca poco alla formosità il colorito conveniente a ciascuna delle parti del corpo, sì che le nere sieno d’un bel nero, e così le bianche, e quelle che debbono essere rifiorite di vermiglio. Però forse manca ancora il meglio.
Licino. E questo donde lo piglieremo? chiamerem forse i pittori, specialmente i più bravi nel temperare i colori, e dare il colorito? Sì, chiamiam Polignoto, ed Eufranore, ed Apelle, ed Aezione. Ma si spartiscano il lavoro: Eufranore colorisca la chioma, come quella che dipinse a Giunone; Polignoto le dia la bellezza delle sopracciglia, e l’incarnato delle gote, che diede a Cassandra nella stanza del conversare5 in Delfo: e le faccia anch’egli la veste di sottilissimo lavoro, dove assettata, dove fluttuante. Tutto il resto della persona lo dipinga Apelle, come specialmente dipinse Pancasta6 non troppo bianca, ma d’un leggiero incarnato: e le labbra le faccia Aezione, come quelle di Rossano. Ma lasciamo Eufranore ed Apelle, e pigliamo Omero che è principe dei pittori. Di quel colore che egli ricoprì l’anca di Menelao, assomigliandola ad avorio tinto di porpora, di quello sia tutta la carnagione. Egli faccia il disegno degli occhi grandi e bovini: ma il tebano poeta lo aiuti a colorir le palpebre screziandole di viola. Omero ancora le dia il facile sorriso, le candide braccia, le rosee dita, e all’aurea Venere assomigli costei più giustamente che la figliuola di Briseo. E questa sarà l’opera degli scultori, de’ dipintori, dei poeti. Ma la grazia che dà vita a tutto questo, anzi le grazie tutte e gli amori che le svolazzano intorno, chi potrebbe mai ritrarteli?
Polistrato. Tu mi parli di cosa divina, o Licino: costeiper fermo è discesa da Giove, e nata in cielo. E che faceva ella quando la vedesti?
Licino. Teneva in mano un libro spiegato, e pareva d’averne già letta una parte. Mentre camminava ragionava con uno di quelli che l’accompagnavano di non so che cosa, perchè non s’udiva parlare; ma sorridendo mostrava certi denti.... che posso dirti, o Polistrato, come erano bianchi, ed eguali, e commessi fra loro? Se mai vedesti bellissima collana di lucentissime perle, e d’una medesima grandezza, così erano in due filze, e più spiccavano pel vermiglio delle labbra: dentro le quali parevano, come dice Omero, d’avorio segato: non grandi, non isporgenti, non larghi come l’hanno alcune, ma tutti uguali, d’un colore, d’una grandezza, d’una distanza fra loro: mirabilissima cosa a vedersi, eccedevano ogni umana bellezza.
Polistrato. Sta’ cheto. Ora capisco bene chi è costei: la riconosco a ciò che me ne dici, ed alla patria. M’hai detto che aveva un seguito di eunuchi.
Licino. Sì, e di soldati ancora.
Polistrato. Dunque, amico mio, tu parli della donna dell’imperatore: la è tanto famosa!
Licino. E come si chiama?
Polistrato. Anche il nome, o Licino, è dolce ed amabile. Ha lo stesso nome della bella moglie di Abradate.7 Ti ricorda, tu che tante volte hai letto Senofonte, come egli loda una saggia e bella donna?
Licino. Sì: e mi fa tanta impressione quel luogo quando io lo rileggo, che mi pare quasi di vederla e di udirla dire quelle parole, e come armò il marito, e con quale animo lo accompagnò alla battaglia.
Polistrato. Eppure tu l’hai veduta una volta sola passare come un lampo, ed hai lodato ciò che ti è venuto agli occhi, il corpo e le sue forme: ma tu non ne vedesti le doti dell’animo, e non sai che ella ha in sè una bellezza molto maggiore e più divina di quella del corpo. Lo so io, che sono suo compatriotto e famigliare, e le ho parlato tante volte. Ed io più della bellezza lodo, come fai anche tu, la bontà, l’umanità, la magnanimità, la modestia, l’istruzione le quali sono più pregevoli del corpo: e il dire il contrario sarebbe così ridicolo come se uno più della persona ammirasse il vestito. La perfetta bellezza, a creder mio, è quando si uniscono insieme virtù di animo e formosità di persona. E veramente io ti potrei additar molte donne, che hanno forme belle, ma le disabbelliscono per altre cose: non appena parlano, e quella bellezza sfiorisce, e perdesi, degradata, e sfigurata, e serva d’una malvagia padrona, d’un’anima trista cui immeritamente è unita. Queste tali a me paiono simili ai templi egiziani, bellissimi e grandissimi edifizi, lavorati di pietre preziose, ornati di oro e di pitture, ma se dentro vi cerchi il dio, è una scimia, o un ibi, o un becco, una gatta. E di queste se ne vedono tante! Non basta adunque la bellezza se non è ornata dei veri ornamenti, non di vesti di porpora e di collane, ma di quelle virtù che testè dicevo, di modestia, di mansuetudine, di umanità, e di altre simili a queste.
Licino. Ebbene, o Polistrato, parole per parole, compensami con la stessa misura, come si dice, anzi con migliore, che ben lo puoi: e dipingimi l’immagine dell’animo di costei, acciocchè io non l’ammiri a mezzo.
Polistrato. Amico mio, tu non mi metti a piccola gara: che non è la stessa cosa lodare ciò che apparisce a tutti e dichiarare con parole ciò che non è manifesto. E credo che per fare l’immagine avrò bisogno anch’io d’aiuto, non pure degli scultori e dei pittori, ma dei filosofi ancora, perchè il ritratto corrisponda alle loro regole, e sia perfetto secondo l’arte antica. Ora via facciamolo. E primamente un parlar chiaro, armonioso, e più dolce del mele scorre dal labbro di costei più che del vecchio di Pilo, come direbbe Omero. Il tuono della voce morbidissimo, non grave che si accosti al virile, nè troppo sottile che paia del tutto femineo e languido, ma come saria quello d’un fanciullo non ancora pubere, soave e carezzevole, entra dolcemente nell’orecchio, per modo che anche quando la parola cessa, rimane la voce e s’aggira nell’orecchio, come un’eco che prolunga l’udito, e lascia nell’anima le orme delle parole piene di dolcezza e di persuasione. E quando con quella bella voce ella canta, specialmente su la cetra, allora sì, allora debbono tacere gli alcioni, le cicale, e i cigni, che a petto a lei non sanno cantare; e se mi nomini la figliuola di Pandione, anch’ella è rozza e senz’arte, benchè mandi voce sì melodiosa. Orfeo ed Anfione che tanto allettavano chi li udiva, e tiravano col canto anche le cose inanimate, se udissero costei, forse lascerebbono la cetra, e rimarrebbero taciti ad ascoltarla. Che veramente quel serbare armonia perfettissima, da non uscir punto del ritmo, ma opportunamente coi tuoni acuti e coi bassi variare il canto, quell’accordo del canto alla cetra; quell’andare ad un tempo la lingua ed il plettro;8 quella facilità di dita; quella pieghevolezza di membra, come mai poteva averlo quel trace, e quell’altro che mentre pasceva i buoi sul Citerone si spassava a sonare la cetra? Onde se mai, o Licino, tu l’udirai cantare, sentirai non pure l’effetto che fanno le Gorgoni, di uomo divenendo pietra, ma conoscerai ancora quello che facevano le Sirene, rimarrai come incantato, dimentico della patria e della famiglia: e se turerai con cera le orecchie, anche per la cera passerà il canto. Ti pare di udire una Tersicore, una Melpomene, o la stessa Calliope che con la sua arte ti dà infiniti e vari diletti. In una parola immagina di udire un tal canto, quale si conviene che esca di quei labbri e di quei denti. Tu l’hai veduta: ora immagina ancora di averla udita. Il suo favellare terso, e schiettamente giono, la sua piacevolezza nel conversare, i molti e le grazie attiche di cui è ricca non debbono far maraviglia: perchè l’è cosa che le vien dalla patria e dai suoi maggiori, essendo ella di colonia ateniese.9 Nè mi maraviglio se ella è molto vaga e pratica di poesie, essendo cittadina d’Omero. Eccoti, Licino, una sola immagine della bella voce e del canto di costei, conte io ho saputo ritrartela alla meglio. Or mira anche le altre immagini; che io non voglio, come te, comporne una di molte (che questa non è gran cosa anche in pittura, di molte e varie bellezze formare una sola, multiforme e diversa); ma tutte le virtù dell’anima saranno dipinte ciascuna in una immagine che ritragga l’originale.
Licino. Tu m’inviti a festa ed a nozze, o Polistrato, e mi pare che davvero mi vuoi dar misura colma per rasa. Colmala adunque, che non mi potresti far cosa più grata.
Polistrato. Dunque giacchè innanzi a tutti i begli studi debbono andare le lettere, specialmente quelle che esercitano la memoria e l’intelligenza, formiamo questa immagine varia e multiforme, per dipingere un po’ anche secondo la tua maniera. Sia dunque così dipinta che abbia tutti i beni di Elicona, che sappia non come Clio, o Polinnia, o Calliope, o le altre muse, ciascuna delle quali sa una sola arte, ma tutte, e quelle ancora di Mercurio e di Apollo. Che quanto i poeti dissero ornatamente in versi, o gli oratori in maschie prose, quanto gli storici narrarono, e i filosofi consigliarono, tutto adorni questa immagine; e la colorisca non pure di fuori, ma la penetri a dentro, si che sia imbevuta e sazia di colore. E qui mi scusi il non potere mostrare nessun antico modello di questa pittura: perchè non v’è memoria di tante lettere fra gli antichi. Ma, se credi, riponiamo questa immagine, che non è dispregevole, come a me pare.
Licino. Bellissima, o Polistrato, e di perfetto disegno.
Polistrato. Dopo di questa è a dipingere l’immagine della sapienza e del senno. E qui mi ci vorrà di molti modelli, specialmente antichi, ed uno di Jonia stessa. Pittori ed artefici di questa immagine saranno Eschine socratico,10 e Socrate stesso, valentissimi fra tutti i ritrattisti, perchè dipingevano anche con amore. Quell’Aspasia di Mileto, che fu amica dell’Olimpio,11 anch’egli mirabilissimo, poniamo a perfetto modello di senno; e quanta perizia, quanto acume nelle faccende politiche, ed accorgimento, e sagacità ella aveva, tutto va copiato esattamente nella nostra dipintura: se non che quella immagine era dipinta sopra una tavoletta, e questa è di grandezza colossale.
Licino. Come dici questo?
Polistrato. Perchè, o Licino, io dico che queste immagini sono simili sì, eguali no; come non è eguale, anzi neppur s’avvicina, la repubblica ateniese d’allora al presente impero romano. Onde benché per simiglianza questa è la stessa di quella, per grandezza è molto maggiore, perchè è dipinta sovra una larghissima tavola. Il secondo ed il terzo modello sieno Teano, e la poetessa di Lesbo, ed oltre a queste Diotima. L’alta intelligenza le dia Teano, Saffo lo squisito gusto, e Diotima non pure le dia la scienza, che in lei ammirò Socrate,12 ma la prudenza ancora ed il consiglio. E così fatta, o Licino, riponiamo quest’altra immagine.
Licino. Sì, Polistrato; ed ella è mirabile. Dipingi le altre.
Polistrato. Dipingerò quella13 della sua bontà ed umanità, la quale faccia vedere l’indole sua dolce e pietosa dei miseri. Rassomigli ella adunque a quella Teano che fu moglie di Antenore, e ad Arete, e alla costei figliuola Nausicaa, e a quante donne in alto stato usarono saggiamente della fortuna. Dopo di questa si dipinga l’immagine della sua modestia, e dell’amore che porta al suo compagno, e sia simile alla figliuola d’Icario, a Penelope modesta e saggia, dipinta da Omero; o alla moglie di Abradate, che ebbe lo stesso nome, e cui testé ho ricordato.
Licino. E quest’altra è bellissima, o Licino. Forse già
sono finite le immagini, che hai spiegata tutta l’anima, lodandone ciascuna parte.
Polistrato. Non tutta: che ancora manca la lode più grande, cioè che essendo ella in tanta altezza, non si veste di superbia, non si leva sopra l’umana condizione fidando nella fortuna, ma è sempre eguale a sè stessa; non mai una scortesia uno sgarbo, conversa alla civile ed alla pari, fa accoglienze e saluti gentili; cose che tanto più piacciono, in quanto vengono da persona più grande, e che non vi mette alcuna boria. E così quelli che usano della potenza non per dispregiare ma per beneficare gli altri, paiono degnissimi dei beni che hanno da fortuna. Questi soli sfuggono meritamente l’invidia: perchè nessuno invidia ad un grande, che serba moderanza nella sua grandezza, e non cammina, come l’Ate d’Omero, sopra le teste degli uomini, nè calpesta chi sta sotto. Questo fanno gli uomini di piccola levatura non avvezzi alla fortuna; i quali, quando la fortuna inaspettatamente subito gl’inalza sovra il suo alato e sublime cocchio, non rimangono più quelli che erano, non riguardano in giù, ma si sforzano sempre di montare più alto. Onde, come Icaro, squagliata subito la cera, e cadute le penne, fanno un ridicolo capitombolo nell’onde del mare. Ma quei che come Dedalo usano dell’ale, e non si levano troppo, sapendo che son fatte di cera, e volano a modo più umano, contentandosi di andar pure a fior d’acqua, e di spruzzarsene talvolta le ali senza esporle continuamente al sole, quelli sicuramente e modestamente trasvolano. E questa è la lode principale di costei. Onde ella ne ha questo frutto, che tutti desiderano che a lei rimangano sempre le ali, e le sovrabbondino tutt’i beni.
Licino. Sia, o Polistrato, così: ella ne è degna, che non pure di persona è bella come Elena, ma sotto tali bellezze copre un’anima più bella e più amabile. E ben sì conveniva che un imperatore sì buono e benigno, fra tanti beni avesse anche questa felicità, che sotto il suo impero fosse nata cotal donna, la quale a lui si unisse e lo amasse. Che non è piccola felicità avere una donna, di cui si può dire come Omero, che all’aurea Venere contende il vanto della bellezza, e nell’opre agguaglia Minerva. Insomma nessuna delle donne si paragoni a lei, non per formose membra, come dice Omero, nè per cuor, nè per mente, nè per opre.
Polistrato. Dici il vero, o Licino. Onde, se vuoi, mescoliamo tutte queste immagini, quella del corpo che tu hai fatta in rilievo, e quelle dell’animo che io ho dipinte; e di tutte componendo una sola, poniamola in un libro, e presentiamola all’ammirazione di tutti i presenti e degli avvenire. Infatti la sarà più durabile di quelle di Apelle, di Parrasio, di Polignoto, e molto più piacente, perchè non è fatta di legno, nè di cera, nè di colori; ma è formata coi sacri ingegni delle Muse, e sarà un’immagine perfetta, come quella che ritrae la bellezza del corpo e la virtù dell’animo.
Note
- ↑ Questo dialogo ed il seguente contengono lodi strabocchevoli e prosuntuose d’una donna di Smirne, detta Pantea, amica di Lucio Vero imperatore, o, come altri vuole, moglie di Avidio Cassio, capitano romano.
- ↑ Niobe figliuola di Tantalo, fu mutata nel Sipilo, monte presso Smirne, dal quale gemevano molte acque, che parvero le lagrime di Niobe.
- ↑ Negli Amori è descritto il tempio e la statua, ed è narrata la favola. Ateneo dice che Prassitele nel fare quella statua ebbe a modello Frine sua amìca, e bellissima.
- ↑ Nella cittadella d’Atene era la statua di Minerva, detta Lennia, o da quei di Lenno che la dedicarono, o da un luogo in essa cittadella, chiamato Λίμναι.
- ↑ Il Gesnero a questo luogo cita il passo di Pausania (Phoc. pag. 657.) che può tradursi così. «V’è una stanza pitturata da Polignoto per voto fatto da quei di Cnido, la quale i Delfi chiamano Lesche (stanza del conversare); perchè quivi negli antichi tempi si ragunavano per conversare di gravi cose e di antichi miti. Dipoi Pausania descrive lungamente le pitture di Polignoto, ed anche la Cassandra, che erano in quella stanza.
- ↑ Pancasta, meglio detto che Pacata, fu concubina di Alessandro.
- ↑ Senofonte nella Ciropedia dice che la moglie di Abradale chiamavasi Pantea: onde anche costei ha questo nome.
- ↑ Plettro, per chi noi sa era un istrumento con cui si toccavano le corde della cetra: ed è anche l’archetto del violino.
- ↑ Alcuni dissero Smirne colonia ateniese, e fabbricata da Teseo.
- ↑ Secondo Diogene Laerzio ed Ateneo questo Eschine socratico scrisse un libro intorno ad Aspasia. Si dice ancora che egli diede per suoi i dialoghi di Socrate: e pare che qui Luciano lo creda anch’egli. Vedi il 'Parassito.
- ↑ Pericle fu detto Olimpio per la sua eloquenza.
- ↑ Socrate imparò da Diotima la scienza d’amore. Platone nel Simposio.
- ↑ Credo che debba dir τὴν, e non τὰς quella, non quelle.