Le donne di casa Savoia/IX. Maria

IX. Maria

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IX.

MARIA

Moglie di Filippo Maria Visconti

n. 1411 - m. 1458


Oh! quel dir. son cosi, povera donna,
Sola soletta.... è pure un gran dolore!



E
ssa nasceva da una madre buona come un angiolo (Maria Claudina di Borgogna), e da un padre virtuoso e valoroso oltremodo (Amedeo VIII), e naturalmente anch’essa fu buona e virtuosa sin dall’infanzia. L’indole e l’esempio dei genitori hanno grande influenza sul carattere dei figli, e da famiglie buone ed intemerate si hanno, salve rare eccezioni deplorevoli, uomini e donne buoni e intemerati.

Maria, primogenita di bella figliuolanza, era l’idolo di suo padre, che vedeva rispecchiate in lei tutte le materne virtù; ed egli si stimò felice quando, conclusa la pace fra il Piemonte e il Duca di Milano, questi ricercò pure la di lui alleanza, ed inviò i suoi ambasciatori a chiedergli in sposa la figlia prediletta. Ma conoscendo l’indole di Filippo Maria Visconti, che in un regno di quasi quarantanni, non ha lasciato il [p. 64 modifica]ricordo nè di un benefizio, nè di una buona azione, giova credere che Amedeo si rallegrasse non per l’uomo, ma per la posizione eminente che così era fatta a Maria. Fosse per l’una o per l’altra ragione, egli diè a quell’avvenimento la più grande importanza, e lo volle celebrato col maggiore splendore.

Gli ambasciatori del Duca di Milano furono ricevuti dal Duca di Savoia nel Castello di Bourget, che da gran tempo non aveva riunito una società più brillante. Oltre il seguito degli inviati, e gli ufficiali della Corte di Amedeo, tutti i signori e le dame dei vicini castelli vi erano accorsi, invitati dal loro sovrano. Di più questi, per aumentare il brillante circolo di sua figlia al ricevimento solenne degli ambasciatori del Visconti, aveva chiamato presso di lei anche varie castellane ginevrine, che malgrado i rigori della stagione, erano venute a cavallo fino da Annecy, seguite dai loro paggi.

M.r Costa de Beauregard ci racconta in proposito, che Amedeo, volendo in quell’occasione sfoggiare magnificenza in tutto, fece portare da Thonon il mantello di drappo d’oro di cui si serviva nelle occasioni solenni, e distribuì ai Principi e alle Principesse della famiglia, vesti di velluto e di seta, ricche di ricami e di pelliccie.

Anche la servitù partecipò a queste larghezze; e gli ambasciatori affascinati e colmi di doni, riportarono a Milano le prove ed il ricordo di sì nobile ospitalità. Intanto si allestiva in Piemonte il ricco corredo [p. 65 modifica]della giovine sposa, la cui magnificenza richiese più di nove mesi di lavoro, e 300,000 lire di spese, e che fu celebre nella sua epoca.

Qui le lettrici mi sapranno grado, io credo, se presenterò loro il ritratto dello sposo, quale ce l’offre il Sismondi: «Filippo Maria, l'ultimo dei Visconti Duchi di Milano, era d’alta statura, assai magro in giovine età, grassissimo in età avanzata. Aveva deforme viso, grossi gli occhi, e lo sguardo sempre incerto. Trascurava tutto quanto poteva contribuire a rendere piacente la persona; la leggiadria del vestire e la pulitezza medesima, sembravangli odiose cose, e non ama metteva mai alla sua presenza coloro che erano elegantemente vestiti».

Maria, o ignorava questo ritratto, o la sua gioventù non le ci faceva riflettere sopra, o un’innata rassegnazione le impediva di discutere la sua sorte. Il fatto è che essa non fece nessuna obiezione mai, e si dispose serenamente alla partenza per la nuova sua patria.

L’accompagnava a Milano il fratello Lodovico Duca di Ginevra, ed erede della corona, con un seguito numeroso e brillante. Partirono da Chambéry il 19 Settembre 1428, e giunsero il 26 a Santhià. Ma per effettuare il matrimonio, Filippo volle attendere la scelta del giorno dai suoi astrologhi, e questi scelsero il 29. E la celebrazione si fece ad Abbiategrasso, nel convento dei Frati Minori; poi, ai 6 di Ottobre, la nuova Duchessa entrò in Pavia, e quindi in Milano.

Il carro e l’attacco col quale la giovine sposa entrò [p. 66 modifica]nella capitale, merita una speciale descrizione, che io traduco da M.r Costa de Beauregard.

«Era tirato da otto cavalli di vario mantello, scelti appositamente, e costavano circa CINQUANTA lire ciascuno: era guarnito di ricchi tappeti, di quattro grandi guanciali di piuma, coperti di damasco cremisi ricamato d’oro, e così pure le tendine. Il coperchio, o tetto, era all’interno foderato di velluto ricamato d’oro, e di fuori di damasco verde — le ruote erano dorate — le bardature dei cavalli erano di cuoio e velluto verde, guarnite di chiodi di rame giallo e brillante — il resto del carro, maestrevolmente dipinto a stelle verdi rialzate d’oro, con le armi della Duchessa, poi i finimenti del carro erano coperti di velluto rosso, e lo stesso le selle delle cavalcature, con le redini dorate».

Maria aveva allora diciassette anni, e per la sua ingenua bellezza, per le rare qualità del suo cuore, piacque, e presto divenne l’idolo dei popoli che obbedivano al Duca suo sposo.

Del carattere di questo sposo, che all’epoca di tal matrimonio contava trentacinque anni, e che molti han descritto qual persecutore di lei, ecco cosa ne dice il già citato storico: «La caccia e i cavalli erano l’unico suo sollazzo: altronde egli era cupo, timido e soprammodo lo spaventavano i lampi, il tuono e qualunque discorso teneva a fargli pensare alla morte; il suo carattere e le opere sue parevano principalmente muovere dalla [p. 67 modifica]a continua diffidenza di sé stesso e degli altri. Temeva di essere sinistramente giudicato da chi gli si appressava. Egli sfuggiva del pari gli sguardi dei forestieri e de’ sudditi di ogni condizione: i quali non potevano presentarglisi senza incontrare mille difficoltà: ma s’egli finalmente si accontentava di ricevere qualche persona, sapeva mostrarsi dolce ed affabile; e a tutti coloro che giungevano ad acquistarsi una volta la sua confidenza erano quasi sicuri di potere assai sopra il di lui animo. Principe senza rispetto per l’umanità, senza amore per i suoi popoli, flagello de’ propri Stati e di quelli dei vicini, egli fu assai più reo signore che non fosse uomo malvagio, e trovavasi in lui qualche mescolanza di ingegno, di virtù e di generosità».

Ammesso dunque ciò, mi sembra ingiusto di accogliere senza alcuna riserva, tutto il male che si dice di lui, ed io non lo farò. Ed invece di dare, come verità indiscutibile, che Filippo era tanto geloso, da non permettere che la moglie vedesse alcun uomo, tranne il confessore, come assicurano alcuni storici, e che fosse obbligata a convivere con uno stuolo di gentildonne, e che nullameno il Duca non si coricò mai con lei, mi piace piuttosto dividere l’opinione del Costa de Beauregard, che asserisce essergli stata Maria teneramente affezionata, e che non fu giammai sottoposta a persecuzioni gelose. C’è poi chi va più in là, e racconta che la Duchessa ebbe pel marito un senso sì tenero e rispettoso, che il giorno in cui egli le aveva toccate le mani [p. 68 modifica]non volle lavarsele. Filippo, allorchè sposò Maria, era vedovo di Beatrice di Tenda, da lui fatta decapitare per finta gelosia, perchè annoiato di lei che gli era assai maggiore di età. Vi è chi racconta che lo spettro della infelice gli appariva tutte le notti, e lo faceva fuggire impaurito per le sue stanze, forse agitato dal rimorso. E chi sa che non debbasi attribuire piuttosto a tale notturno incubo, se egli mai non divise con la giovine sposa la camera nuziale. Perchè Filippo, ad onta di tutta la sua crudeltà, aveva realmente per la Duchessa affetto e rispetto. Essa sola, nelle sue crudeltà, ebbe talora il potere di frenarlo, e se non fosse stato lo schiavo della sua antica amante Agnese del Maino, che non lo voleva, forse anche quel matrimonio avrebbe dato al Ducato un erede diretto. Ma su queste cose mi sembra che non metta il conto di fermarsi, e meglio è ricercare le prove che fanno testimonianza del ricambio di affetto che esisteva tra Filippo e Maria, e della confidenza che egli ebbe sovente in lei. E la più segnalata si è l’influenza ch’ei le lasciò prendere negli affari di Stato, e soprattutto l’interesse che le concedeva di dimostrare, politicamente, per la di lei propria famiglia.

Maria aveva concepito nella sua mente un progetto che avrebbe, se riuscito ad effetto, fin da allora avvantaggiato di molto l’unità italiana. Siccome Filippo non aveva figli, tranne Bianca, bastarda avuta da Agnese, e sposata a Francesco Sforza, essa lo andava dolcemente preparando a legare un giorno la sua [p. 69 modifica]corona al proprio fratello, Lodovico I Duca di Savoia. A tale scopo, e molto anche per avere un essere da amare con affetto materno, essa sollecitava Lodovico ad inviarle a Milano il figliuolino Amedeo, dicendogli e ripetendogli che il Duca avrebbe avuto gran piacere di averlo. Ma Lodovico, principe impolitico, marito debolissimo, e padre trascurato e imprevidente, sempre irresoluto nei suoi atti, sempre schiavo della moglie, la bellissima, astutissima e perfida Anna di Cipro, non seppe comprendere la sorella, né profittare di quelle buone disposizioni, nè capire il succo dei consigli di un di lei incaricato, che trovavasi alla sua Corte, e gli faceva presentire che anche i Milanesi si sarebbero per tal guisa affezionati al fanciullo; egli resistè, e non per amor paterno, alle istanze della sorella, e non le mandò il nipotino.

Poco tempo dopo il cattivo esito di queste pratiche, il Duca Filippo morì (13 Agosto 1447), ed i Milanesi, assaliti da avidi pretendenti che si disputavano quell’eredità, tentarono costituirsi in Repubblica e di conservare la loro indipendenza. Ma siccome le loro forze non corrispondevano ai generosi sentimenti. Maria, che dopo la morte del marito abitava ancora, rispettatissima, in Milano, in un’ala del Palazzo Ducale, di cui tutto il resto era adesso occupato dalla Signoria, riuscì a persuaderli di sollecitare l’appoggio del Duca di Savoia.

E le armi del Duca furono alzate per dodici giorni sulle porte della città, ma nulla potè fare uscire Lodovico dalla sua apatia. Se lo scettro di Savoia fosse [p. 70 modifica]stato in quel tempo in mano di un uomo di cuore e di valore, i Milanesi, riuniti fin d’allora al Piemonte, avrebbero formato il possente nucleo di questa anelata unità italiana, oggetto, per secoli, di tanti voti e tanti sacrifizi.

Ma le porte di Milano si aprirono invece alle masnade dello Sforza, che sostituì il suo dominio a quello di una Repubblica effimera e impotente.

Allora Maria di Savoia, mostratasi così degna della riconoscenza della sua famiglia, e di quella postuma degli italiani, lasciò la città che l’aveva accolta e festeggiata sposa e signora, e tornò in Piemonte, e con lei sparì dalla Corte di Milano quanto di eletto e di intatto erasi conservato sotto i Visconti.

Così sola, così incompresa, Maria ebbe allora un momento di accasciamento e di debolezza; la vita le sembrò stupida ed inutile, e pianse desolata: ma scossa dall’intorpidimento morale che l’aveva sopraffatta, pensò che niuno è quaggiù sulla terra per caso, che tutti abbiamo una missione da compiervi, e che tanto più ce ne facciamo un merito innanzi a Dio, quanto più la si compie serenamente. Perciò, guardatasi intorno, riflettè e comprese; e dato un solenne addio alle effimere grandezze e alle soddisfazioni umane, si consacrò agli infelici.

Con questi intendimenti, essa prese il velo monacale in S. Chiara a Torino, ove, nella pratica di ogni virtù, finì in breve la sua mortale carriera nel 1458.