Giace il mondo fra lussi, e l'uomo insano
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Verginella innocente in bianco velo | Già d'una piva insuperbito e vano | ► |
XXXII
LE DELIZIE DEL SECOLO
Al marchese di Villa G. B. Manso
Giace il mondo fra lussi, e l’uomo insano
rende sudditi a’ sensi i propri affetti;
prezza crapole e giochi, amante vano,
veste pompe, usa lisci, ama diletti.
Negli agi immersa effeminata e folle
la pronta gioventú marcir si vede:
regna il sonno e la piuma, e l’ozio molle
su le morbide coltri a l’ombra siede.
Miro l’opre e l’usanze oggi diverse
da quel secolo d’òr purgato e casto;
le pelli usò chi nuditá coperse,
or di serica pompa orna il suo fasto.
In quel primo vagir del mondo infante
era stanza il tugurio a l’uomo imbelle:
or da la terra emulator gigante
edifíci sublimi alza a le stelle.
Fa sviscerar da peregrini monti
superbo ingegno i piú pregiati marmi,
per farne o logge o prezïosi fonti,
che del tempo guerrier durino a l’armi.
Fa ch’i suoi tetti a riguardar sí belli
siano d’arte maestra ultima prova;
novi Dedali chiama, e novi Apelli
al suo regio lavor prodigo trova.
L’onda che sprigionata un tempo apriva
da la pomice scabra argentea vena,
che senz’arte correa purgata e viva
tra vaghi fior per la campagna amena;
custodita e riposta oggi tra chiavi,
fa per opra de l’arte opre stupende,
con soave rumor dai piombi cavi
le reggie illustri ad arricchir discende.
Non piú rustiche paglie, aspri fenili,
rozzi e poveri velli, ispidi stami;
ma molli sete e prezïosi fili
fanno al regio suo tetto ombre e ricami.
Pendono in giú per le sue logge arcate
mille d’aureo lavor tappeti industri,
e ne le mura e ne le travi aurate
mille ammiri d’eroi memorie illustri.
Del piú famoso e nobile metallo
il suo ricco balcon cerchia sovente,
e dei monti rifei puro cristallo
fa ne le sue fenestre ombra lucente.
Ei, gonfio il cor d’ambizïose voglie,
calcar povero suol rifiuta e sdegna;
pavimenti gemmati, aurate soglie
il suo nobile piè toccar sol degna.
Nel suo morbido letto ombrando il lume,
padiglione si leva alto e pomposo,
e fra lini odorosi e bianche piume
presta al languido corpo agio e riposo.
Vengon a esercitar musiche danze
donzellette lascive in ricca veste;
spirano arabo odor le regie stanze,
e fra dolci armonie s’odono feste.
Fra cancelli d’argento in aria appeso,
prigioniero giocoso, il verde augello
qui da l’India remota a lui disceso,
mille nomi ridir sa vago e bello.
Mille d’argento e d’òr conche e vasella
sopra candido lin prepara e spande,
ove miri in sua mensa agiata e bella
odorosi fumar cibi e vivande.
Attuffato nel ghiaccio, esposto a l’oro,
generoso Lieo spumante brilla,
che ’n tazza di finissimo lavoro
con soave allegria placido stilla.
Sontuoso teatro, altera scena
di figure e di lumi erge a suo vanto,
ove ispana leggiadra il ballo mena
e marito del ballo unisce il canto.
Ahi, ch’onesto rossor piú non inostra
in donnesca bellezza il bianco viso;
lascivetta in andar gli abiti mostra,
lussureggia nel petto, arde nel riso.
De la chioma sua bionda il campo adorno
con rastrello d’avorio ara e coltiva;
poi vi semina odori e sparge intorno
di licori sabei pioggia lasciva.
A che dentro le pompe alma bellezza,
e tra fregi non suoi giace sepolta?
Schietta e nuda beltá via piú si prezza,
tanto meno è gentil quant’è piú cólta.
Oh d’umana follia prova superba!
Sa ch’ogni opra de l’arte al fin rovina,
sa che sparsa nel Tebro arena ed erba
ricopre ancor la maestá latina.
Cadde Menfi superba e Caria illustre,
cesse a l’armi del tempo Argo e Micene,
e sepolta in oblio fosco e palustre
fra le nottole sue sta cieca Atene.
Le piramide sue trovi, se puote,
glorïoso l’Egitto e ’l Nilo altero;
Troia miri le mura a pena note,
che fêr sí grande il suo temuto impero.
Trovi Rodi il colosso, Efeso il tempio,
miri tumido Creso oggi il suo trono;
contro i colpi del tempo ingordo ed empio
i romani trïonfi ove ora sono?
A che, dunque, inalzar tetti eminenti,
s’ogni fasto mortal rapido piomba?
s’altro non resta a ricettar le genti,
ch’un freddo marmo, una funerea tomba?