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254 | lirici marinisti |
A che, dunque, inalzar tetti eminenti,
s’ogni fasto mortal rapido piomba?
s’altro non resta a ricettar le genti,
ch’un freddo marmo, una funerea tomba?
XXXIII
CONTRO L’IGNORANZA E L’AVARIZIA DEI PRINCIPI
A Gaspare de Simeonibus
Giá d’una piva insuperbito e vano,
che gli pendea dal setoloso collo,
si gonfiò, si levò satiro insano,
ch’osò sfidar, prosuntuoso, Apollo.
— O tu — dicea, — che con aurato scettro
ti fai signor de l’eliconio fiume,
non ti vantar s’hai ne la mano il plettro,
ché non è tuo, ma del cillenio nume.
Cedi il tuo vanto all’armonia ch’io reco
con una canna industrïosa ed alma;
ma se ceder non vuoi, pròvati meco,
e premio sia del vincitor la palma.
Prendi il telar de le tue varie corde
ove in musica tela ordisci il suono,
e vedi poi chi nel sonar concorde
fa di noi due piú grazïoso il tuono.
Io d’armoniche fila ordine industre
luminoso non ho pettine bello;
ma con un legno ruvido e palustre
ti sfido intanto a singoiar duello. —
Udio la voce il biondo arcier canoro
del vantator del rusticale arnese,
ed armando la man di cetra d’oro,
guerrier canoro a la disfida scese.