Le cento novelle antiche/Novella LXIV
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Novella LXIII | Novella LXV | ► |
D’una Novella ch’avvenne in Provenza alla corte del Po.
NOVELLA LXIV.
Alla corte del Po di nostra donna in Provenza s’ordinò una nobile corte, quando il figliuolo del conte Raimondo si fece cavalier, et invitò tutta buona gente. E tanta ve ne venne per amore, che le robe e l’argento fallio. E convenne che disvestisse de’ cavalieri di sua terra, e donasse a’ cavalieri di corte. Tali rifiutaro, e tali consentiro. In quello giorno ordinaro la festa, e poneasi un sparviere di muda in su un asta. Or venia chi si sentia sì poderoso d’avere e di coraggio, e levavasi il detto sparaviere in pugno. Convenia che quel cotale fornisse la corte in quello anno. I cavalieri e donzelli che erano giulivi e gai, sì faceano di belle canzoni e ’l suono e ’l motto; e quattro approvatori erano stabiliti, che quelle che aveano valore faceano mettere in conto. E l’altre, a chi l’avea fatte, diceano che le migliorasse. Or dimoraro, e diceano molto bene di loro signore. E li loro figliuoli furo nobili cavalieri e costumati. Or avvenne che uno di quelli cavalieri (pogniamli nome messer Alamanno) uomo di gran prodezza e bontade, amava una molto bella donna di Provenza, la quale avea nome madonna Grigia, et amavala sì celatamente, che niuno li le potea fare palesare. Avvenne che li donzelli del Po si puosero1 insieme d’ingannarlo e di farlo vantare. Dissero così a certi cavalieri e baroni noi vi pregamo, ch’al primo torneare che si farà, che la gente si vanti. E pensaro così. Messere cotale è prodissimo d’arme, e farà bene quel giorno del torneamento, e scalderassi d’allegrezza: li cavalieri si vanteranno. Et elli non si potrà tenere, do non si vanti di sua dama. Così ordinaro. Il torneamento fedio. Il cavalier ebbe il pregio dell’arme. Scaldossi d’allegrezza. Nel riposare la sera, e cavalieri si incominciare a vantare. Chi di bella giostra; chi di bello castello; chi di bello astore; chi di bella ventura. E ’l cavaliere non si potè tenere, che non si vantasse ch’avea così bella dama. Or avvenne che ritornò per prender gioja di lei, com’era usato. E la dama l’accommiatò. Il cavaliere sbigottì tutto, e partissi da lei e dalla compagnia de’ cavalieri, et andonne in una foresta, e richiusesi in uno romitaggio si celatamente, che niuno il seppe. Or chi avesse veduto il cruccio de’ cavalieri e delle dame e donzelle che si lamentavano sovente della perdita di così nobile cavaliere, assai n’avrebbe avuto pietade. Un giorno avvenne che i donzelli del Po smarriro una caccia, e capitaro al romitaggio detto. Domandolli, se fossero del Po. Elli risposero di sì. Et elli domandò di novelle. E li donzelli li presero a contare come v’avea laide novelle; che per picciolo misfatto aveano perduto il fior de’ cavalieri, e che sua dama li avea dato conmiato, e niuno sapea che ne fosse addivenuto. Ma procianamente2 un torneamento era gridato, ove sarà molto buona gente, e noi pensiamo ch’elli ha sì gentil cuore, che dovunque elli sarà, sì verrà a torneare con noi. E noi avemo ordinate guardie di gran podere e di gran conoscenza, che incontanente lo riterranno. E così speramo di riguadagnare nostra gran perdita. Allora il romito scrisse a un suo amico sacreto, che ’l dì del torneamento li trammetesse arme e cavallo sacretamente. E rinviò i donzelli. E l’amico fornì la richesta del romito, chè ’l giorno del torneamento li mandò cavallo et arme; e fu il giorno nella pressa de’ cavalieri, et ebbe il pregio del torneamento. Le guardie l’ebbero veduto. Avvisarolo. Et incontanente lo levaro in palma di mano a gran festa. La gente rallegrandosi, abbatterli la ventaglia dinanzi dal viso, e pregarlo per amore che cantasse. Et elli rispose: io non canteroe mai, se io non ho pace da mia dama. I nobili cavalieri si lasciarono ire dalla dama, e richieserle con gran preghera, che li facesse perdono. La dama rispose: diteli così, ch’io non li perdonerò giammai, se non mi fa gridare mercè a cento baroni et a cento cavalieri et a cento dame et a cento donzelle, che tutti gridino a una boce mercè, e non sappiano a cui la si chiedere. Allora il cavaliere il quale era di grande savere, sì pensò che s’appressava la festa della candelara, che si facea gran festa al Po, e le buone genti veniano al monistero. E pensò: mia dama vi sarà, e saravvi tanta buona gente, quanto ella addomanda che gridino mercè. Allora trovò una molto bella canzonetta; e la mattina per tempo salio in sue lo pergamo, e cominciò questa sua canzonetta quanto seppe il meglio, che molto lo sapea ben fare, e dicea in cotale maniera3.
Autresi com lorifans,
Que can chai nos pot leuar,
Troli autre ab lur cridar
De lur votz lo levon sus,
Et ieu vueill segra quel us,
Car mos mesfatz es tan greus e pesans,
Que si la cort del Puei, el ric bobans,
El verai pretz dels leials amadors
Nom relevon, iamais non serai sors.
Quil denhesson per me clamar merse,
Lai on iutias, ni razo nom val re.
E sieu per los fis amans
Non pueso mon ioi recobrar,
Par tos tema lais mon chantar,
Car de mi no ia ren plus,
Ans vivrai com lo reclus.
Sols, ses solatz, cai tals es mos talans,
Car ma vida mes enueis et afans,
E gaugz mes dols, e plazers mes dolors,
Quieu non soi ges de la maneira dors,
Que qui bel bat, nil te vil ses merse,
Adoncx engraisa, e meillure reve.
A tot lo mon soi clamans
De mi e de trop parlar,
E sieu pogues contrafar
Fenicx, qui non es mes us,
Que sart, e pueis resorsus,
Marterieu, car tant sui malanans,
E mos fols digz mensongier, e truans.
Resorzera ala sospira et ab plors
Lai, on heutat es, e iois, e valors,
En que non faill mas un pauc de merse,
Que non hi son ajustat tuit li be.
Ben sai camors es tan grans,
Que leu mi pot perdonar,
Sieu failli per sobramar,
Ni renhei com le magus,
Que ditz quel era Jesus
E volc volar al ciel otracuidans;
E Dieus baiset lergueill e lo sobrans;
Mas mos orgueills non es ren mai amors,
Perque merses mi deu faire secors;
Quen maint luec es on razos vens merse,
E luec un razo, ni dreit pro non te.
Ma chansos mer drogomans
Lai, on ieu non aus anar;
Ni ab dreitz hueills esgarar;
Tant soi forfuitz et aclus;
Ni ia hom nomen escus
Meills de dompna, que fugit ai dos ans.
Av torn a vos doloros e plorans
Aissi col sers, que cant a fait lonc cors
Torna murir al bruit dels cassadors,
Aissi torn ieu dompnen vostra merse;
Mais vos non cal, qua clamor nous sove.
Allora tutta la gente, quella che era nella chiesa, gridaro mercè; e perdonolli la donna. E ritornò in sua grazia come era di prima.
Note
- ↑ si puosero insieme; cioè convennero tra loro, deliberarono. Trovasi usato il verbo porre in questo senso anche dal Boccaccio, da Gio. Villani e da altri.
- ↑ procianamente (così anche nella stampa del 72), voce ita del tutto in disuso: lo stesso che prossimamente: qui val tra poco. Nel Vocabolario ha proccianamente con due c; e così parimente scrive questa voce il Manni.
- ↑ Le seguenti stanze provenzali essendo nell’impressione del Benedetti di lezione molto guasta e scorretta, si sono qui ristampate come stanno nell’opera Dell’Origine della poesia rimata di Giammaria Barbieri scrittore del sec. XVI, il quale le trovò fra le altre canzoni di Rigaut de Berbezill che ne fu il vero Autore, essendo il nome di M. Alamanno un’invenzione di chi scrisse la Novella. Si aggiunge la traduzione italiana dell’Ab. Pla che si ha nello stesso libro pubblicato dal Cav. Tiraboschi in Modena l’anno 1790 (v. pag. 99 e seg.). Questa canzone si legge altresì con qualche varietà nel tom. V, pag. 443 e seg. dell’opera Choix des poesies originales des Troubadours par M. Raynouard. Anche il co. Giulio Perticari nel suo trattato Dell’Amor patrio di Dante l’ha riportata, emendandola coll’aiuto di due codici provenzali vaticani.
Altresì come L’Elefante,
Che quando cade non si può levare,
Fìn che gli altri con lor gridare
Di lor voci lo levan suso;
Ed io voglio seguir quell’uso;
Che ’l mio misfatto e tan greve e pesante,
Che se la Corte di Puy, e i ricchi (grandi) burbanti, (burbanzieri)
E ’l vero pregio de’ leali amanti
Non mi rilevan, giammai sarò surto.
Ch’e’ degnassero per me chieder mercè (pietà)
Là ove giudici e ragion non mi val niente.
E s’io per li fini amanti
Non posso mia gioja ricovrare,
Per sempre lascio ’l mio cantare;Che di me non v’è niente più,
Anzi vivrò come il racchiuso,
Solo, senza sollazzo, chè tal è mio talento:
Perchè la mia vita m’è noja ed affanno,
E ’l gaudio m’è duol, e ’l piacer m’è dolore.
Ch’io non son mica (fatto) alla maniera d’orso,
Che chi ben lo batte, e lo tien vile senza mercè (compassione).
Allor’ ingrassa e migliora e rinviene.
A tutto il mondo mi lagno
Di me e del troppo parlare;
E s’io potessi contraffare
La Fenice, (che non è più l’uso)
Che s’arde e poi risorge suso,
M’arderei io; perchè tanto son disgraziato,
E i miei folli detti menzogner e buffoneschi.
Risorgo ora con sospiri e con piantiLà ove beltade è, e gioja, e valore;
In cui non falla (manca) più che un poco di mercè,
(Per) Che non vi sia ragunato tutto ’l bene.
Ben so che amor è tan grande,
Che lieve mi può perdonare,
Se io fallai per sovramare,
E regnai come il mago,
Che disse ch’ei era Gesù,
E valle volar al ciel oltracotante, (arrogante)
E Dio abbassò l’orgoglio e la soverchia.
Ma il mio orgoglio non è altro che amore,
Per il che mercè mi dee far, e soccorso;
Che in manti (molti) luoghi accade che ragion in mercè viene,
E (v'è) luogo ove ragion e dritto pro non tiene.
La mia canzon mi è dragomanno, (turcimanno)
Là ov’io non oso andare,Nè con dritti occhi sguardare.
Tanto son forfatto (malfattor) ed acchiuso;
E già uom non me ne scusa,
Meglio di donna, (o miglior donna) che fuggito ho due anni;
Or torno a voi doloroso e piangente,
Siccome il cervo, che quando ha fatto lunga corsa,
Torna a morir allo strepito de’ cacciatori;
Così torno io, donna, alla vostra mercede (pietade).
Ma a voi non cal, che clamor non vi sovviene.