perficie. Giacinta apparterrebbe al buon ceppo dal quale derivano Mirandolina, Bettina, Eugenia, Zelinda. «Nella trilogia della Villeggiatura, — scrive un’incognita Donna Rosaura — c’è un personaggio femminile — Giacinta — frivolo, ostentato, vanitoso, eppure animato da un brivido di passione, non in forma di dolore, ma di malinconia, ciò che è più artistico, più fine, più difficile. Soltanto un profondo conoscitore d’anime può rendere le sfumature della figura di Giacinta che, fidanzata, sposa il suo promesso vincendo un amore più forte; ella compie un atto nobile pure avendo un cumulo di difetti e di miserie morali» (Mondo artistico, Milano, I marzo 1907). «Giacinta: anima tormentata e tormentosa; stupenda figura di donna moderna nella scena del settecento!» — esclama ammirando Adolfo Albertazzi — «Dal conflitto della ragione col cuore, della passione col dovere ella assorge mirabile di verità: or debole, con smarrimenti improvvisi, con pietà di sè, con abbandoni a fallaci speranze; or forte, con violente riprese di sè, con rimproveri acerbi a sè stessa, con intelligente dominio delle circostanze e dell’animo altrui; or triste, con voce di pianto; ora ironica fino al sarcasmo; orgogliosa nella debolezza; fiera nella forza e nella volontà; nervosa nell’ironia e nell’ambascia». Ma dispiace, aggiunge lo stesso critico, ch’ella nel discorsetto finale interrompa l’interessante analisi della propria psiche per non attediare i signori gentilissimi che l’ascoltano (Pel 2. centen. della nascita di C. G. Il Teatro Manzoni, Milano, 1907, p. 32). Non è raro il sostituirsi dell’attore al personaggio nel teatro del Nostro (cfr. la chiusa del sec. atto nei Rusteghi e altrove). Sono stonature poetiche osserva il De Gubernatis, e rivelano «il modo assai disinvolto con cui si lasciava trattare il buon pubblico veneziano del suo tempo» (Carlo Goldoni, Firenze, 1901, p. 269). Il Momigliano le qualifica «sciocchezze che tolgono l’illusione della realtà» (Le opere di C. G., ed. Momigliano, Napoli, 1914, p. 49 1 ). Ma Emma Boghen Conegliani nel caso di Giacinta spiega così la scappata del Goldoni:«Perchè il Goldoni non ci ha dato questa scena, questa lotta intima? Appunto perchè gli sarebbe voluto uno sforzo di fantasia, ed egli non voleva lavorar di fantasia, non voleva crear con isforzi esseri goffi e irreali che tali gli sarebbero riusciti, dacchè egli non li sentiva, non li intendeva. Gran saggezza fu questa di misurarsi senz’alzare i tacchi, come direbbe il Giusti, col suo soggetto, di non drappeggiarsi in paludamenti non adatti alla sua figura» (C. G. Nuova rass. di letterature moderne, Firenze, marzo 1907, p. 131). Quanto fervore di critica femminile intorno a questa sorella goldoniana! Raccogliamo ancora le buone considerazioni ch’essa ispira a Maria Merlato.
«Quella pensosa e appassionata Giacinta che si sacrifica . . . per una malintesa idea del dovere» le sembra «una delle poche donne vive e sensibili del teatro goldoniano . . . Noi assistiamo in lei alla tortura d’un’anima che si costringe a una rinunzia dolorosa; ma mai, nelle sue inquietudini febbrili, nei suoi brevi soliloqui disperati, ci appare il fantasma di ciò che sarà. A Giacinta duole di rinunziare a Guglielmo: ma ella non ci rivela mai il timore che il sacrifizio sia superiore alle sue forze, che quel giovane possa essere per lei indimenticabile. Ella compie il sacrificio con un intimo spasimo, ma con una qual tranquilla serenità, come se avesse la certezza che la lontananza e il sentimento del dovere saranno sufficienti a farle dimenticare Guglielmo» (Mariti e cavalier serventi nelle commedie del G., Firenze, 1906, p. 18).