Le amanti/Tramontando il sole/IV
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IV.
Infelicissimo amore! Immediatamente Giovanni Serra provò il confuso avvilimento della sua caduta e Clara la delusione della sua prepotenza sentimentale. Passata l’ebbrezza singolare e pur triste della grande serata, ella si trovò di fronte a Serra, nella condizione tormentosa e misera, di una donna che ama troppo, che vuole amar troppo e che, sovra tutto, pensa e dice di amar troppo, mentre non è riamata abbastanza. Infelicissimo amore! Giacchè nello speranzoso e baldanzoso animo di Clara, restituito ai consueti trionfi della sua beltà e della sua grazia, tolto dal fittizio ambiente di umiliazione morale, in cui ella si era collocata con amara voluttà di punizione, rimesso nella posizione solita ed orgogliosa di una donna che ha conquistato un uomo o che lo ha riconquistato, in questo animo in cui gli impeti della immaginazione erano il fondamento della passione e dove la vanità si nascondeva sotto le forme più semplici, in questo animo tramontò subito quel purissimo e inaccessibile ideale di un amore che volontariamente rinunzia alla corrispondenza, di un amore che volontariamente invoca di esser dolore e di essere espiazione. L’imperioso cuore che si voleva dare in un immenso sacrificio, privo di premio, ritirò subito la sua offerta, quando negli occhi smarriti di Giovanni Serra vide la follia dell’amore, quando egli si curvò a baciare quelle labbra col trasporto di un uomo che non ha mai finito di amare, che ricomincia ad amare, con la forza di dieci anni di ricordi, accumulata e repressa. Clara passò la notte seguente nella veglia deliziosa, e indescrivibilmente deliziosa di chi ha trovato, nell’amore, quello che cercava, il gran segreto che tutte le anime sentimentali e passionali cercano: un amore eguale al proprio, la corrispondenza perfetta e l’armonia sublime. La vita, infine, aveva dato, con dieci anni di ritardo, è vero, ma con più potenza di concentramento, alla donna innamorata dell’amore, ciò che ella non aveva mai provato, ciò che pochi uomini e poche donne provano sulla terra: un amore schietto e profondo, così sentito e così corrisposto. Immensa delusione: e infelicissimo amore!
Poichè, quando ella rivide Giovanni e guardò nei suoi occhi, ella vi scorse un imbarazzo mortale, una tristezza mortale, come ne nascono nelle pure coscienze di coloro che caddero per una inesplicabile debolezza della volontà. Clara credeva, era certa di vedersi apparire innanzi un uomo felice, ringiovanito, ridato alla forza vincitrice degli ostacoli e ridato agli entusiasmi dell’età più bella: e invece, Giovanni aveva l’aspetto di un uomo che ha errato e che sente amaramente tutto il peso del suo errore. Clara era lieta e dolce, aveva rialzato i suoi capelli in un grosso nodo attraversato dagli spilloni di tartaruga, come dieci anni prima, aveva un vestito chiaro e gaio: e Giovanni la guardava, con certi occhi distratti e stupiti, dove, ogni tanto, si abbassava il velo di una malinconia intensa, dove, ogni tanto, passava la nuvola dello sgomento.
— Come siete gioconda, questa sera! — le disse, come trasognato.
— Perchè ti voglio tanto bene — ella gli rispose, dolcissimamente, prendendogli le mani.
Egli si turbò sempre più.
— Non parliamo di questo, Clara.
— Perchè? Non mi credi? Non mi credi?
Egli tacque. Non le credeva, infatti. Ella intese perfettamente questa sfiducia.
— Che debbo fare, perchè tu creda?
— Nulla, Clara: non fare nulla. Io sono uno sventurato.
— E perchè? Non ti voglio bene, io, malgrado la tua incredulità? Non mi vuoi bene, tu?
— Io! — gridò lui. — No, no, non ti amo!
— E che mi hai detto ieri sera, allora? Hai mentito? Sei diventato bugiardo, ora? Non eri bugiardo, prima.
Giovanni Serra non rispose. Era così pallido, così disfatto ed evitava tanto di guardarla!
— Amore mio, amore mio — ella riprese, tenerissimamente, carezzandogli una mano — non tormentarti, te ne prego. Non ti dico nulla, non ti domando nulla: la mia voce e le mie parole ti agitano, lo vedo. Lascia ch’io stia vicino a te, così, in silenzio.
Era, difatti, seduta accanto a lui, sul divano, e gli aveva passato un braccio sotto il braccio; aveva appoggiata lievemente la testa sulla sua spalla. Un lungo silenzio: ma ella, a occhi bassi, sentiva che il respiro di Giovanni diventava affannoso. Allora, pian piano, levò gli occhi, lo guardò, gli mormorò:
— Mi vuoi bene?
Una così grande espressione di dolore, negli occhi di quell’uomo! Ella tacque, ancora un poco, legata a lui, cheta, respirando appena: poi le parve che egli le sfiorasse con le labbra i capelli:
— Mi vuoi bene, amore? — chiese, sorridendo nel fondo del cuore.
Giovanni sospirò profondamente e rispose:
— No.
Attraversata da un impeto d’ira, ella si staccò bruscamente da lui, si levò, esclamando:
— Sei cattivo e scortese.
Una scena dolorosa avvenne fra loro, dove tutta la violenza e tutta la natural tenerezza del cuore di Clara — tenerezza repressa nel periodo d’isolamento in cui era stata — sgorgarono in parole precipitose, ardenti, innamorate e pure ingiurianti: e dove tutta la mitezza e tutto il profondo scetticismo di Giovanni si manifestarono, più dolci e più freddi, pieni delle grandi timidità di chi, avendo amato invano per tanto tempo, ha oramai una paura invincibile di amare. Due o tre volte, durante questa penosissima scena, ella lo offese in un modo crudele, poichè era avvezza a calpestare i cuori che adorava, per poi adorarli più profondamente, dopo; ed egli sentì l’offesa, con un amaro piacere, giacchè essa lo autorizzava non a reagire, ma ad andarsene, per non ritornare mai più. Questo, questo, era il suo intimo desiderio, innanzi a quella donna che lo affascinava e che lo terrorizzava coi tumulti strani della sua fantasia, con le singolarità di un temperamento fuggevole e pericoloso, con l’impensato di un’anima, nella quale la inconscienza assumeva degli aspetti terribili e dolcissimi. Nel momento in cui ella più gravemente lo ingiuriò, egli pensò che era giunta la salvazione per lui, se partiva. Ma quando ella lo vide arrivato alla soglia, quando intese che lo perdeva, così, miseramente, irrimediabilmente, lo chiamò con una voce così spezzata dal pianto, che egli si volse, venne a lei. Clara piangeva. Piangeva! Mai l’aveva vista piangere. Credeva che non potesse piangere, tanto il gran riso clamoroso, e il riso breve, e il sorriso, e il sogghigno le eran particolari. Clara piangeva, soffocando dai singhiozzi, con un lamento che le usciva dalle labbra, continuo. Il cuore di quell’uomo buono s’infranse, ed egli intese sul suo petto quel povero corpo femminile scosso dai singulti, ed essa intese da quella voce tremante e fievole la parola d’amore, strappata dall’essenza di quell’anima, dolorosamente.
Tali furono, sempre, le amarissime vittorie di Clara; e procedendo oltre, il combattimento fu diversamente aspro, con forze maggiori o minori dall’una parte e dall’altra, ma concedenti sempre il più triste dei trionfi al soldato più energico e più ardente, più abituato alla guerra dell’amore, più multiplo nelle sue risorse di attacco e di difesa. Giacchè appena Giovanni Serra si allontanava da Clara, dalla sua casa, dal cerchio magico in cui ella lo rinserrava, rinasceva in lui il desiderio della fuga ultima, della liberazione. Quando ella non era presente ed egli non ne vedeva le grazie delicate, e la novissima incantatrice dolcezza, e tutta la seduzione muliebre potente, Clara gli appariva come l’aveva sempre considerata, da dieci anni: una donna attraente, perfida e fallace, a cui egli aveva gittato inutilmente il suo cuore e per la quale aveva perduto ogni fede in sè stesso e nella vita. La figura di una creatura quasi mostruosa, senza pietà femminile, senza alito di sentimento nell’anima, senza coscienza pel bene, come pel male, formatasi in dieci anni nel suo spirito, lo signoreggiava, di nuovo, con novello impulso di ribrezzo, di orrore. Mutata, forse? Forse. Ella era capace di tutto, anche di vestire l’aspetto della maggior tenerezza della maggiore nobiltà spirituale, e di essere, forse, tenera e nobile veramente, per un certo tempo per ordine della propria volontà, sino a che la natura sopita si risvegliasse, e l’onda della perfidia e della menzogna trasportasse via il bel sogno di bontà e di dolcezza. Mutata? E che, perciò? Anch’egli s’era mutato purtroppo, e dove la lava incandescente della passione aveva gorgogliato, schiumando, del fuoco, si stendeva il lapillo grigio e freddo delle devastazioni vulcaniche: dove aveva vissuto la fede nell’anima umana e nella sua purezza, vi era il gelo di un dubbio tranquillo e non più torturante: dove avevano balzato di gioia e di voluttà gli entusiasmi giovanili, vi era l’inazione e l’aridità. La lealtà, il rispetto, la bontà virile rimanevano intatte in quell’uomo che aveva avuto in dono, nella giovinezza, le qualità più nobili dello spirito: ma ciò che restava, non bastava all’amore. Una parte di quel cuore, era veramente finita. E tutta la sensibilità che ancor viveva in lui, fremeva di sgomento all’idea di essere stato ripreso da quel fascino; non si sentiva più la forza morale per quelle lotte e il risultato non gli sembrava più la sua grande ambizione. Così, di lontano, egli formava sempre il disegno di non vedere mai più Clara. Ella gli scriveva delle lettere lunghe e bizzarre, con un’incoerenza sentimentale che sarebbe stata molto interessante e molto seducente per un uomo più giovane e più vivace, meno provato dai dolori della vita, ma che gli produceva un senso di ripulsa, di maggior distacco: non rispondeva alle lettere. Ella gli mandava degli appuntamenti; Giovanni vi mancava, due o tre volte. Perchè, alla quarta volta, egli non resisteva più e vi andava, riluttante, pieno di tutte le incertezze? Egli non se lo spiegava: e nella sua timida immaginazione, il fascino di Clara assumeva un aspetto onnipossente; Giovanni aveva bisogno di credere a un potere ascoso, rarissimo, unico, per spiegare la mollezza della sua volontà. Perchè, tante volte, quando egli andava da lei, ben deciso, ben risoluto, a dichiararle che quell’amore così povero di gioie, così dubbio, così squilibrato non aveva ragione di essere e di durare, perchè Giovanni, innanzi al bel volto tranquillo e sorridente di Clara, a quelle mani che gli si tendevano affettuosamente, al suono di quella voce che ella rendeva così insinuante, per lui, perchè egli non diceva più niente, lasciandosi andare alla corrente di quel sentimento, illuso per un poco, credendo di essere amato, credendo di amare? Perchè, nelle loro grandi scene, scoppiate improvvisamente, egli aveva provato a proclamare la sua libertà, la sua indifferenza, sempre più duramente, meravigliandosi anzi talvolta della propria durezza, ed era riescito soltanto ad esasperare Clara; ma non aveva svincolato il proprio cuore? Perchè, mentre egli era dei due quello che meno pensava d’amare, che meno diceva d’amare, che non scriveva, che rinunziava ai convegni, perchè, poi, era lui quello che più cedeva, che più si dava, che più rientrava in servitù, con ritorni di affetto che costituivano le pochissime soavità di quell’amore? Perchè, una volta, quando stettero quindici giorni senza vedersi ed ella continuava a scrivergli, egli non ebbe la forza di non aprire, come aveva dichiarato, le sue lettere? E una sera, ella passava, sola, triste, pallida, per una via, rientrando nella sua casa deserta con aspetto di tale abbattimento ed infelicità, che Giovanni, vedendola innanzi a sè, non visto da lei, provò uno schianto indicibile. Ritornò a lei, subito, senza che lo avesse chiamato: e Clara stessa si stupì di questo ritorno inatteso, mentre il suo cuore si era immerso già nell’amarezza dell’abbandono. E ingenuamente, puerilmente, Giovanni non sapendo come spiegarsi la sua debolezza e la sua disfatta, pensava a qualche cosa d’insolitamente affascinante, e diceva, come un bimbo:
— È una strega.
Ma per colei che misteriosamente lo riconduceva a sè, ogni volta, questi trionfi erano un tossico. Fermentavano dentro il suo spirito indomito le ribellioni più profonde contro questo stato di lotta che avviliva l’idea ch’ella si era fatta di quell’amore e che la mortificava in tutte le sue vanità muliebri. Ella, infine, lo amava, è vero, come poteva e come sapeva, con un senso immensamente egoistico che aveva sempre dominato in quell’anima: lo amava, perchè le faceva piacere di amare, perchè il suo stato migliore era l’amore, perchè ella non sentiva la vita che quando era innamorata: l’amava perchè così aveva voluto ed ora la sua volontà era più forte di lei. Ciò che la sconvolgeva, era di non sentirsi amata abbastanza, mentre ella sapeva di dare a Giovanni il meglio che restava di lei: ciò che la esasperava, era questa battaglia quotidiana che ella sosteneva, per conservare, se non l’amore, la larva di amore che le portava quest’uomo: ciò che la faceva delirare di collera, segretamente, era di avere ancora sbagliato, anche in quest’ultima volta e di non potere in nessun modo metter rimedio al suo errore. Per il passato, coloro che l’avevano amata, erano stati tipi soliti, comuni, non più buoni e non più cattivi di qualunque altro uomo, in modo che il mondo psicologico di Clara non aveva avuto sviluppo che nelle ombre della sua anima, assai più grande e assai più complessa di quelle che ella aveva avuto ai suoi piedi. Ella aveva sofferto per loro, non già per le complicazioni sentimentali, ma perchè questi due o tre erano esseri limitati, non meschini, ma limitati, a cui ella aveva creato una luminosa e inesistente aureola. Aveva sofferto di non essere amata abbastanza, disprezzando coloro cui mancava la potenza spirituale, rimpiangendo sempre Giovanni, Giovanni, ch’ella aveva disdegnato e di cui si rammentava la violenza giovanile di passione: e lentamente, nella sua coscienza, si era formato il criterio che solo Giovanni l’avesse amata e che solo lui, così profondo, così intimo, così squisito, avrebbe potuto amarla come ella desiderava. Gli altri, erano, infine, poveri diavoli, ai quali ella aveva dato il manto di porpora della sua immaginazione e uno scettro d’oro, sotto cui ella medesima si era curvata; ma l’anima bella per sè, grande per sè, unica nella tenerezza come unica nella passione, era quella di Giovanni. Ella aveva creduto a una fatalità del destino quando, finendo la sua giovinezza, prima del tramonto, s’erano incontrati nuovamente ed egli le aveva parlato dell’amore passato. E in lei si erano dileguate le profonde stanchezze, mentre più vivo, più forte rinasceva il desiderio di amare eccezionalmente, di essere eccezionalmente amata. Ella si rammentava un Giovanni Serra tutto pieno di un ingenuo e vibrante ardor giovanile, che faceva dell’amore non un breve episodio, come tutti gli altri, ma il grande affare dei suoi giorni e delle sue notti, che dava all’amore un tesoro di intima mestizia e di gioie delicate, che portava l’immagine dell’amata come la sola visione degna della sua fantasia, e che ne pronunziava il nome con una emozione vivissima e candidamente mal repressa. Aveva creduto, quando egli le narrava i suoi dolori passati con sì grande senso di amarezza, che egli fosse sempre il medesimo: e che era giusto e umano l’amarlo; e che era una voluttà dolorosa l’amarlo senza conforto; e che, infine, infine, egli l’amasse ancora, malgrado i tentativi di fuga, malgrado i dinieghi, malgrado i terrori che gli si dipingevano sul volto, malgrado che egli restasse freddo e confuso, nelle ore più calde, in cui ella più si abbandonava a questa estrema passione. E dall’antico concetto e dal novissimo errore suo, ella traeva un veleno interno di delusione, un seguito di sconfitte inavvertite da lui, ma di cui ella provava il colpo nel fondo dell’anima, un ricadere continuamente sulle proprie speranze e un soffrire per tutte le parti, dall’amore all’amor proprio, dalla delicatezza all’orgoglio, dalla sensibilità femminile bonaria alla sensibilità femminile maligna. Come si torturava ella, per un ritardo di un’ora, per una parola detta con troppa disinvoltura, per un voi apparso improvvisamente nel più intimo discorso: e il suo umore si cangiava, per la sottile ferita ricevuta, ed egli, che non sapeva di aver ferito, si stupiva del cangiamento, e arretrandosi, pallido, come se avesse visto un fantasma, le diceva la tetra e monotona frase:
— Voi siete sempre la stessa.
Sì, Clara era sempre la stessa, con un carattere mobile e pure ostinato, con una energia breve e caduca, con un disprezzo intimo e cordiale di sè, con un egoismo a cui dava le forme nobili dell’amore, con un desiderio di vivere e di godere che non si saziava mai; e su tutto questo fondo stravagante, e spesso perfido, e spesso capace dei più alti sagrificii, il ricordo di una vita vissuta mediocremente, il ricordo di sciocchi errori e di delusioni meschine. Era sempre la stessa, lei, ma da tutti i pianti versati nella solitudine della sua casa, da tutte le angoscie soffocate sotto la sua maschera di donna mondana, da quell’abbandono in cui aveva passato un anno, le era venuta innanzi alla mente la grande verità, che tutti i calcoli dell’egoismo sono sempre sbagliati, e che bisogna vivere per gli altri, per poter essere felici. Non era fatta per questo, la sua natura capricciosa ed esaltata: ma la sua volontà le imponeva di assuefarsi alla più semplice verità umana, che è la felicità altrui: ed ella giungeva con uno sforzo supremo là dove altre creature arrivano naturalmente e la sua bontà calma, la sua dolcezza ragionata, la sua serenità esteriore avevano, forse, maggior merito, poichè ella affogava in esse tutto il clamore di un’anima ribelle. Soffriva profondamente, perchè non era amata abbastanza, perchè non era neppure certa di essere amata: dentro le vene ardeva il sangue per collere improvvise: cento volte ella sentiva la tentazione di scacciare Giovanni da sè, di non vederlo mai più. Ma il pensiero che egli, veramente, la credesse ancora una perfida femmina, capace del male per la voluttà del male, ma l’idea di desolare ancora Giovanni, con una catastrofe spirituale, tale che per sempre ne restasse violata la sua memoria, la rigettavano nell’amore e nel sacrificio.
E più il suo spirito spasimava per la battaglia che sosteneva, più ella prodigava a Giovanni Serra i tesori della più squisita affezione. Egli, talvolta, ne restava avvilito. Ora, non le diceva più di non crederle; nè, d’altra parte, la fiducia nasceva in lui, bensì uno stupore malinconico. Quando ella gli dava qualche novella pruova, non chiesta, di amore, egli restava confuso e rammaricato:
— Io non merito questo, Clara. Tu esageri sempre: e che sarà il nostro avvenire, così?
— Io ti amerò sempre egualmente — diceva ella, esaltata.
— Quante volte l’hai detta la parola sempre?
— Ah tu sei crudele! — esclamava lei, abbassando il capo per nascondere il suo pallore.
Sì, quell’onest’uomo, quell’uomo onesto e buono era spesso crudele, con lei. Non s’accorgeva di colpirla, così duramente: o non la credeva sensibile: o credeva che fosse necessario di colpirla, per guarirla da questo morbo spirituale che la teneva. Certi giorni, dopo un’assenza di una settimana, le appariva innanzi quietissimo, avendo l’aria di non vedere che ella era disfatta dall’attesa, non dando nessuna scusa alla sua mancanza. Un dialogo freddo si stabiliva fra loro due: le labbra di lei fremevano leggiermente, perchè reprimevano lo sdegno: egli non capiva ciò e dopo un’ora trascorsa, così, in uno strazio fine e pur terribile, egli si levava per andarsene:
— Vieni domani? — ella diceva, a occhi bassi, pallida come uno spettro,
— Non so.
— Dopodomani, allora?
— Non ti saprei dire: ho delle faccende noiose da sbrigare.
— Ah! — diceva lei, senz’altro, sentendosi morire.
— Ti scriverò, quando posso venire.
— Va bene.
E lentamente lo seguiva, mentre si avviava alla porta: gli porgeva una mano gelida ed immota. Talvolta, egli le chiedeva:
— Che hai?
— Nulla — ella rispondeva con voce così mutata che egli avrebbe dovuto capire. Ma, temendo una scena, egli se ne andava, senz’altro. Come ella correva nella sua stanza, gittandosi sul letto, mordendo i cuscini, ingiuriando la freddezza di Giovanni, imprecando alla propria viltà, esalando tutta l’ira della sua delusione, soffocando le grida del suo cuore che insorgeva contro un dolore così atroce! La crisi durava una notte intiera: ella si addormentava all’alba, con gli occhi rossi di lacrime, con il petto ancora esalante sospiri. Egli non sapeva nulla di ciò. Ella temeva che Giovanni la fuggisse per sempre, se diventava troppo insistente e troppo noiosa. L’altiera donna era giunta a credersi una seccatrice. Pure, qualche sera, quando più l’onesto e buon’uomo era stato crudele, ella sentiva cadere le forze della sua rassegnazione. Allora gli appariva infelice, così accasciata, così perduta in un abisso di delusioni, che l’oscuro mistero della sua tenerezza per Clara, si svelava. Una volta, egli era andato via. Appena fuori, sulle scale, egli intese, dietro la porta ancora chiusa, un tale scoppio di singhiozzi che tornò indietro, bussò e la trovò smarrita, incapace di affogare i suoi lamenti, incapace di dominarsi più. Qual notte! Egli le parlava ed ella, perduta in un oceano di amarezza, non gli rispondeva, mentre, come se fosse sola, si raccomandava alla Madonna ed ai santi, perchè la liberassero da quelle torture. Egli le prendeva le mani, ma ella le ritraeva, come inorridita, convulsa, per rivolgerle al cielo, per chiedere la pace, la pace, niente altro: egli cercava di abbracciarla, ma quel corpo fremente gli sfuggiva; essa passava da un divano all’altro, camminava al buio, per le altre stanze, parlando sola, gemendo tutto il suo male, gemendo di dover amare così, gemendo di essere così poco amata. Notte fatale, invero: giacchè fu allora soltanto ch’egli capì tutta la gravità del loro caso: giacchè fu in quella scena di lacrime, di convulsioni, in cui ella pareva avesse dimenticata persino la sua presenza, che egli le parlò, per una volta, come dieci anni prima, come un innamorato, come un amante. Egli s’inginocchiò innanzi a lei e le chiese perdono della sua condotta, e la pregò che avesse pietà di lui; la scongiurò di credergli, quando le diceva che nessun essere le era devoto come il suo, e di compatirlo se egli non sapeva amarla, se egli non sapeva ritrovare in un’anima stanca, malata, vecchia, gli accenti e gli entusiasmi dell’amore; che per quanto egli poteva amare, l’amava; che era poco, sì, era poco, per una donna appassionata come lei; che ella meritava un miglior innamorato, un miglior amante; ma che lui non poteva amar meglio, ma che egli le aveva dato tutto, dieci anni prima, e che quella devastazione era opera sua. Mentre ella, sfinita, esausta, si passava ancora sugli occhi aridi il fazzoletto bagnato di lacrime, Giovanni, ai suoi piedi, le narrava ancora la sua miseria sentimentale presente, la sua morbosa sensibilità che aveva paura dell’amore, la sua impotenza spirituale, tutta la rovina irreparabile che gli impediva di esser per lei il perfetto innamorato, il perfetto amante. Alle sue ginocchia, in una evocazione straziante, di quello che era stato il suo passato d’amore e nello strazio della presente realtà, egli versò poche, cocenti lacrime, le più dolorose che avesse versate mai. Smorta, con gli occhi spalancati su lui, reggendosi la testa con le mani, ella che aveva gridato tutta la sua desolazione, udiva ora le parole di una ben diversa miseria, di un disfacimento umano assai più tragico del suo; e mentre l’alba faceva il cielo di un freddissimo bianco-verdino, i due amanti si guardarono, presi da una pietà immensa, per sè stessi, e sentendo che nessuno dei due poteva consolare, giammai, giammai l’altro.
Ella, folle oramai di sacrificio, fu dimentica di sè, e si rassegnò a una forma qualsiasi dell’amore, purchè Giovanni non l’abbandonasse. Rinunziava alla passione, chiudendo gli occhi: ella che adorava solo la passione! L’amasse Giovanni, come voleva, come poteva, quando voleva: purchè quel residuo di tenerezza fosse suo! Oramai ella diventava simile ai malati che, giorno per giorno, vanno rinunziando alle dolcezze che godono i sani e fanno un ragionamento malinconico a ogni rinunzia. Diceva, ella:
— Tu, che non mi scrivi mai....
E se egli annuiva, ella frenava il suo spasimo. Giovanni, un tempo, le aveva troppo scritto: adesso non ne aveva più la forza. Altre volte diceva:
— Tu non vieni; è vero, domani sera?
Ed era perchè soffriva troppo, a udirlo dire da lui che non sarebbe venuto. Parlando dell’amore, ella soggiungeva, con un debole sorriso:
— Tu che mi vuoi bene così poco....
E lo sogguardava, ansiosamente, per osservare anche l’espressione più fugace. Egli sorrideva, acconsentendo al fatto di amarla poco: Clara indietreggiava, disperata internamente della pruova. Qualche volta, bonariamente, ella gli tendeva un tranello:
— Perchè mi ami così poco? Io ti voglio troppo bene.
— Perchè non posso di più.
— Non puoi, non puoi? Tenta.
— Oh no! — esclamava, con un tono di stanchezza, di sfiducia, di paura.
— Io ti amo troppo — ella diceva, affogando di dolore, ma non mostrandolo.
— È ciò che mi trafigge. Io sono un indegno, Clara.
— E se non ti amassi più?
Giovanni impallidiva e taceva. Quel pallore, la rincorava.
— Se non ti amassi più, di’?
— Mi rassegnerei malinconicamente. Sono stato un grande sventurato, sempre.
— Ti rassegneresti? — e fremeva, ella.
— Mi rassegnerei.
— Mi riesce impossibile di non amarti, Giovanni! — ella esclamava.
— Se tu volessi, ti sarebbe facile. Credimi, non ti ho meritata prima: non ti merito adesso. Era destino!
— Parliamo d’altro — diceva lei, brevemente, vinta.
Ma si rinnovava ogni giorno, ogni sera, il duello, sopra una ben semplice frase così cara a tutti gli amanti. Quando ella era di umore più lieto, gli diceva:
— Già, non ti domando se mi vuoi bene. Sarebbe inutile.
— Sarebbe inutile — mormorava lui, sorridendo, cercando di scherzare.
— Non mi ami affatto? — e la voce lievemente le tremava.
— Affatto.
Clara taceva, incapace di scherzare più.
— Che hai? — chiedeva Giovanni.
— Nulla.
— Nulla? Ti ho rattristata?
— Un poco.
— Sono un infelice — diceva Giovanni, così schiettamente addolorato, che Clara non osava proseguire la discussione.
Ma, talvolta, la domanda era diretta:
— Mi vuoi bene?
E se lui era tranquillo, senza fremiti nella sua sensibilità, le rispondeva:
— Tu lo sai.
— Non so nulla. Ripeti un poco,
— Quante volte lo vuoi sentire, Clara!
— Gli è che non lo dici mai, mai, mai!
— A che serve?
— Mi serve: mi serve immensamente. Te ne prego, Giovanni, Giovanni mio, mio amore, dimmi se mi vuoi bene!
— Ti voglio bene — diceva lui, a occhi bassi, quasi per forza.
— Quanto?
— Quanto posso.
— E poco, è vero, è poco?
— Perchè mi ricordi che sono un poverello, in fatto di amore? Perchè mi rinfacci la mia miseria? Perchè mi rimproveri se non ho più lena, se non ho più una scintilla di entusiasmo? Clara, Clara, tu mi uccidi, così!
— Perdonami — diceva lei, scivolandogli inginocchiata innanzi, con un moto che le era familiare.
— Io non debbo vederti più — diceva lui, come se parlasse a sè stesso.
Oppure, la frase cara agli amanti riappariva in altri modi tormentosi. Talvolta, dopo un lungo silenzio, vagamente, distrattamente, come per un moto delle labbra, ella chiedeva:
— Mi vuoi bene?
Giovanni non rispondeva. Immediatamente, ella diventava trepida e ansante:
— Giovanni, mi vuoi bene?
Allora egli usciva dalle sue riflessioni e vagamente, distrattamente, diceva:
— No.
— Giovanni?
— Clara!
— Hai detto che non mi ami?
— L’ho detto.
— Ed è vero?
— È vero.
Silenziosamente, ella curvava il capo, e le lacrime le discendevano sulle guancie. Giovanni la guardava, desolato: poi, le andava vicino, le carezzava una mano, le baciava le guancie bagnate di lacrime.
— Ho scherzato — diceva.
— Tu non ischerzi mai.
— Ho scherzato.
Tutto finiva, così: ma le lacrime erano state versate. E infine, sulla frase cara agli amanti, avveniva ancora questo:
— Tu non mi chiedi mai, Giovanni, se ti voglio bene!
— Perchè chiedertelo?
— Non ti piace saperlo?
— No, non mi piace.
— Ti tormenta, il mio amore?
— Sì, mi tormenta tanto.
— Ma perchè, ma perchè?
— Perchè mi hai amato troppo tardi — esclamava lui, per la centesima volta; — perchè io non sono più il giovanotto appassionato di dieci anni fa, ma un uomo arido e stanco, senza speranze e senza desiderii! È tardi, è tardi, Clara.
— Mai tardi, per l’amore.
— Siamo vecchi, Clara: il nostro sole tramonta.
— Dio mi salvi dalla notte — ella mormorava, avvilita, senza più energia.
Vi fu un giorno, però, in cui tutte le ombre malinconiche, e le incertezze, e i timori parvero dileguati. Era nella calda estate ed ella era andata ad Albano, sui colli, per fuggire l’aria soffocante di Roma. Colà, lo aspettava pazientemente, per giornate intiere, ma egli, pur promettendo di venire a trovarla, pur scrivendole, non veniva mai. Per tre o quattro volte ella era andata alla stazione, inutilmente. Una grandissima tristezza adesso opprimeva la donna superba; giacchè le pesava sulle spalle tutto l’irreparabile del suo errore sentimentale. Volontariamente ella si era ingolfata in questo amore; con ostinazione di passione ella ne aveva abbracciata la croce; la sua fantasia l’aveva spinta ai più duri sacrificii; e adesso erano impegnati il suo cuore e il suo onore. Stando sola, nella freschezza dei colli albani, ella approfondiva l’immensità del suo ultimo fallo e quel verde riposato tutt’intorno, e quella serenità la crucciavano. Infine, un giorno egli giunse, quasi inaspettato. Era così lieto! Le disse, subito, che non era venuto, ma che aveva sofferto molto, a non venire: che l’aveva molto amata, nella sua assenza: e le domandò, se ella lo amasse ancora. Così lieto! Ella diventò lietissima. Andarono, insieme, sotto l’ombrellino di Clara, a una lunga passeggiata, a braccetto, a traverso i sentieri di campagna, fra i prati fioriti. Clara aveva un vestito di seta leggiera, di un bianco avorio: e un gran cappello di merletto avorio, come una cuffia. Pareva molto più giovane e così delicata che egli la chiamò, ridendo: Madame la marquise. Ella era raggiante. Si sedettero sull’erba, all’ombra di un elce secolare, famoso in quelle campagne, e le loro anime furono così assolutamente e perfettamente armoniose, in quella solinga e serena campagna, che essi si guardavano e indovinavano l’un l’altro i pensieri. Si dispersero, due volte, per la via, ridendo, scherzando, baciandosi, dietro l’ombrello abbassato di Clara: e Madame la marquise arrossiva finemente di gioia, sotto l’ombra bianca del suo grande cappello. Non un motto del passato: non un pensiero del domani: non un velo di amarezza, mai. Egli aveva l’aria di un fanciullo; strappò dei fiori di campo, odorosissimi, ne fece un gran fascio, lo portarono all’albergo in trionfo. Là pranzarono soli, soli, in un angolo della stanza da pranzo, guardandosi negli occhi, sorridendosi, toccandosi le mani nel porgersi un bicchiere, un piatto, ebbri di una gioia di vivere che li faceva impallidire di piacere. Andarono sulla terrazza dell’albergo, soli sempre, tenendosi per mano, tacendo, dicendosi nello sguardo innamorato quelle cose profonde e intime, che l’amore pensa e non dice. Ogni tanto, ella chiedeva:
— Mi vuoi bene?
— Sì — rispondeva lui, semplicemente, senza reticenze.
— Quanto?
— Molto.
— Io ti adoro — ella concludeva, arrossendo.
Alla sera, ella lo ricondusse alla stazione, attaccata al suo braccio, innamoratissima di lui, mentre lui non sapeva staccare lo sguardo da quei cari occhi: si baciarono nella penombra della stazione, senza pensare a chi li guardava. Il treno si mosse, ella restava a guardare e lui si sporgeva dallo sportello, salutando.
Ella gli scrisse, nei giorni successivi, otto o dieci lettere, folli: egli non rispose. Aveva giurato di ritornare: non ritornò. Ella ripartì per Roma, prima che la villeggiatura finisse.