Capitolo II
Sulla riviera del Lupo

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Capitolo II
Sulla riviera del Lupo
I III
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Capitolo II.


Sulla riviera del Lupo.


Gl’indiani, una cinquantina in tutti, giungevano in quel momento a galoppo serrato, schiamazzando e sparando, tanto per fare spreco di munizioni, come è sempre stata loro abitudine.

Si direbbe che l’odore della polvere ed il crepitìo dei winchesters li ubriachino, poichè non fanno mai risparmio nè di voce, nè di munizioni.

Guidava la tropilla una donna, cavalcante un mustano nero e lucido come il pelame d’un gatto, avvolta in un immenso mantello bianco, che rivaleggiava per il candore colla neve che il suo cavallo sfondava coi robustissimi zoccoli.

Giunti sulla riva del fiume, troppo erta per discenderla in sella, anche per degli indios, quantunque siano dei meravigliosi cavalieri, tali da gareggiare sovente vittoriosamente coi cow-boys del Far-West e coi gauchos della pampa argentina, ed anche da dare dei punti agli arabi della Mauritania, scesero dai loro mustani con un volteggio, chè essi non si servono di staffe.

Un grido acuto, imperioso, tagliente come la lama d’una spada, echeggiò nell’aria:

— Sono nel fiume! Datemi la seconda capigliatura dell’indian-agent, ed io sarò la donna più felice di tutti gli Stati dell’Unione.

Porto sul mio scudo la sua vera, ma vorrei pur l’altra, perchè sono certa che se l’è fatta fabbricare coi capelli di mia madre, la grande Yalla.

In caccia! —

Un altissimo urlo di guerra rispose alle fiere parole della sakem scotennatrice.

Dieci uomini s’incaricarono dei cavalli; gli altri che parevano insensibili al freddo come gli esquimesi, presero i loro winchesters e le loro scuri da combattimento e si avventurarono arditamente sulla ripida scarpata della riviera, guidati da un vecchio indiano tutto rugoso ma [p. 16 modifica]robusto ancora, malgrado il gran numero di primavere che gli pesavano sulle spalle, il quale portava lungo il dorso un ornamento di penne di tacchino selvatico, distintivo dei capi indiani.

La sakem invece era rimasta sul suo cavallo, tutta avvolta nel suo magnifico mantellone bianco di pelo di montone di montagna a lunghissime frange colorate in rosso e azzurro.

Non si vedevano più che i suoi occhi, i quali avevano la fosforescenza di quelli delle belve feroci.

Gl’indiani, ora lasciandosi scivolare, ora sfondando i cespugli a gran colpi di scure, in pochi minuti giunsero in fondo alla scarpata e si disposero in fila, scrutando attentamente le acque.

Ma giungevano troppo tardi, poichè la corrente rapidissima aveva portato i due tronchi d’albero ormai assai lontani ed a cento passi di là dalla scarpata s’alzava un gigantesco bastione tagliato a picco sul fiume, il quale impediva di proseguire lungo il greto.

— Ah! ah! — esclamò l’indian-agent, il quale guidava magnificamente il suo tronco, tenendolo ben fermo colla scure che vi aveva infissa. — Ancora una volta la ferocissima Minehaha ha perduta l’occasione di riprendere la capigliatura di sua madre.

— La porti indosso, John? — chiese il signor Devandel che gli stava dietro.

— Come, non sapete che la parrucca che io porto è fatta dei capelli di Yalla? Pagai venti dollari per la fattura; ma questo non conta.

— Ah, brigante!

— Ho voluto metterla al sicuro sulla mia testa. Giacchè Minehaha si è presa la mia, io ho utilizzata quella di sua madre, che era veramente splendida.

Signor Devandel, curvatevi! —

Gl’indiani, vedendo in lontananza i due tronchi montati dai quattro uomini, che la corrente trascinava insieme ad una moltitudine di frammenti e di piccole lastre di ghiaccio, avevano aperto contro di essi, coi loro winchester, un terribile fuoco di fila.

Come è ormai noto, le pelli-rosse non sono mai stati capaci di abituarsi alle armi da fuoco, ed hanno sempre sparato come pessimi coscritti.

Avrebbero fatto forse meglio a conservare i loro archi e le loro frecce che colpivano quasi sempre i nemici; ma è vero bensì che quelle armi primitive avevano breve portata e conservandole, in uno scontro a parecchie centinaia di metri cogli americani, armati sempre di ottime carabine, si sarebbero esposti certamente a gravi rovesci.

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E poi i due tronchi d’albero, già lontani, facevano dei continui sbalzi, e così impedivano anche ad un buon tiratore di poter prendere la mira.

La scarica passò sulle teste dei fuggiaschi senza produrre alcun danno.

— Ehi, John, — gridò Harry, che guidava il secondo tronco montato anche da suo fratello — non si potrebbe rispondere?

— Guardati bene dal segnalare a quelle tigri la nostra posizione — rispose l’indian-agent. — È vero che noi siamo già lontani e che essi tirano malissimo, tuttavia qualche palla potrebbe raggiungerci e fare scoppiare le nostre teste come cetrioli.

— Ho le gambe gelate.

— Mettile in forno.

— Ne hai uno tu da prestarmelo per cinque minuti soli?

— Non ho mai fatto il fornaio, amico Harry.

— Che gambe hai tu?

— Non lo so: durissime di sicuro e a prove di freddo a cinquanta gradi sotto zero.

— E quando prenderemo terra, vecchio John? — chiese il signor Devandel. — Ti confesso che anch’io non ne posso più. Mi pare che le mie gambe sguazzino dentro una sorbettiera.

— Che bella festa per gli orsi che vanno pazzi per le cose dolci.

— Tu scherzi troppo, John.

— Che cosa volete, signor Devandel? A cattiva fortuna ho sempre fatto buon viso.

— Dimmi, testardo, fino a quando le nostre gambe dovranno stare in ghiaccio?

— Finchè non saremo giunti nel lago del Piccolo Lupo; ma vi avverto che quello è infestato di caimani. A quest’ora dormiranno bensì profondamente sotto il fango, perchè quelle bestie son piuttosto freddolose, nondimeno anche in pieno inverno di quando in quando lasciano il loro letto e salgono a galla per addentare qualche disgraziato essere umano.

— Ci guidi in un bel luogo!

— Giù le teste! —

Gl’indiani avevano ricominciato a sparare con rabbia feroce, producendo più baccano che danno, poichè i fuggiaschi, trascinati dalla corrente, di minuto in minuto guadagnavano centinaia di metri.

Stringendo i denti per resistere al freddo intenso che attanagliava le loro gambe, continuarono la loro disordinata corsa, mentre sulla riva già lontana i winchesters continuavano a tonare, sprecando inutilmente molte munizioni.

[p. 20 modifica]A un tratto Curlam, che si trovava dinanzi all’indian-agent, raggomitolato su sè stesso, mandò un urlo.

Quasi nel medesimo momento il lungo tronco di pino montato dal signor Devandel e da John oscillò spaventosamente, come se qualche altro essere più o meno umano avesse cercato d’imbarcarsi su quella strana scialuppa.

La scossa era stata così improvvisa, che i due uomini, per non perdere completamente l’equilibrio, avevano affondate istintivamente lo carabine nel fiume, sperando di toccare il fondo.

— John! — gridò il signor Devandel quando il tronco ebbe finalmente ripresa la sua stabilità, ma non interamente poichè pendeva molto verso la parte anteriore.

— È passato un albero presso di noi, è vero? — chiese l’indian-agent.

— Sì, l’ho veduto; anzi, temevo che ci urtasse.

— Quel birbante l’ha lasciato, credendo di trovarsi più sicuro sul nostro tronco e contando senza dubbio di fare una scorpacciata della nostra carne.

— Di quale birbante intendi parlare, John?

— Non vedete quei due punti fosforescenti, verdastri, contratti come un i e che sono fissi su di noi.

— Mi sei davanti, e non posso veder niente.

— Un magnifico giaguaro naviga insieme con noi, signor Devandel.

— Scherzi?

— Sì, con questo freddo cane? Non ne ho proprio alcuna voglia.

— E così?

— Dove sono Harry e Giorgio?

— Sono lontani da noi almeno trecento passi, e vanno alla deriva danzando un furioso fandango.

— E noi abbiamo le carabine bagnate.

— La mia non è più in grado di sparare.

— E nemmeno la mia.

— Bell’affare! E la corrente ci porta dove Dio vuole senza lasciarci tempo di approdare.

— E dove approdare? Non vedi che le rive sono tagliate a picco?

— È vero, signor Devandel.

— O perderemo le nostre gambe per il freddo intenso, o proveremo i denti del giaguaro.

— Oh, questo non lo so!

— Lasciami vedere quella bestiaccia. —

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L’indian-agent si curvò perchè l’altro potesse spingere innanzi lo sguardo, e il giovane, non aveva più di trentadue o trentatrè anni, si appoggiò colle mani al tronco, alzandosi un poco.

L’indian-agent aveva detto il vero. All’estremità anteriore del tronco d’albero, a dieci passi da Curlam, un superbo giaguaro si teneva rannicchiato, mandando di quando in quando dei sordi miagolii, che finivano in un vero basso ruggito.

Il terribile animale, che per la sua audacia e la sua ferocia vien chiamato la tigre dell’America e che s’incontra dalle terre patagoniche fino alle frontiere del dominio inglese e qualche volta anche più in là, non pareva che in quel momento avesse dei propositi bellicosi.

Sorpreso certamente dallo sgelo mentre stava pescando, poichè tutti i giaguari sono abilissimi pescatori che distruggono in gran numero trote, storioni e salmoni, si era salvato su un albero che la corrente trascinava alla deriva; ma poi, non credendosi troppo sicuro, aveva preferito spiccare un gran salto e mettersi di fronte a Curlam.

Ma poichè anche le belve più feroci quando si trovano in pericolo perdono la maggior parte della loro audacia e non pensano più a predare, perciò il giaguaro non mostrava affatto di volere assalire, quantunque il mastino gli abbaiasse coraggiosamente sul muso.

— E dunque, John? — chiese il signor Devandel. — Dovremo tenerci questo pericoloso naufrago?

— Perchè dite pericoloso? è più spaventato lui di noi che noi di lui, e vi assicuro che se gli si presentasse l’occasione di abbandonarci ne sarebbe ben lieto.

— Hum! preferirei che Harry ci fosse più vicino e lo spacciasse con un buon colpo di carabina.

— Se le sue armi fossero asciutte!... Navigano proprio in mezzo alla corrente, ed i cavalloni li scaraventano in tutte le direzioni.

Provate a dargli una voce. —

Il giovane fece colle due mani portavoce, poichè in quel momento il fragore dei ghiacci che si fracassavano era intensissimo, e gridò:

— Harry! Harry!

— Signor Devandel! — rispose poco dopo lo scorridore di prateria, il quale aveva un gran da fare a mantenere fermo il suo tronco.

— Possono funzionare le vostre carabine?

— Sono bagnate. I cavalloni sono violentissimi qui. Vi sono gl’indiani?

— No, non vi sono nè uomini nè bestie e nem.... —

Si interruppe bruscamente tendendo gli orecchi.

[p. 22 modifica]Verso il basso corso del fiume si udiva un muggito stranissimo, impressionante il quale aumentava rapidamente d’intensità.

— John, — chiese — odi tu?

— Non sono ancora sordo, quantunque non sia più giovane.

— Che cos’è?

— Anche uno scorridore novellino riconoscerebbe in questo fragore poco piacevole, una rapida.

— E noi ci rotoleremo dentro?

— E col giaguaro anche.

— E noi insieme.

— Siamo insieme con lui, signor Devandel.

— Te la prendi con molta flemma.

— Che cosa volete che vi faccia? Io non sono il buon Manitou delle pelli-rosse che può distruggere le cascate e farne risorgere altre a comodo dei suoi figli. Ma ai miracoli del Grande Spirito io non ho mai creduto.

Diavolo! non sono una pelle-rossa io!

— Tu chiacchieri ed intanto la rapida spalanca le sue cento bocche per inghiottirci e fracassarci.

— Chi ve lo ha detto, signor Devandel? — chiese l’indian-agent, il quale non perdeva un atomo della sua calma abituale.

— Se tu dici così vuoi dire che vi è qualche speranza di salvarci noi se non il giaguaro.

— Non sarei così tranquillo.... Conosco le rapide e so che quando vi si cade dentro non si esce più interi. Centomila punte di scoglietti a fior d’acqua vi afferrano e vi macinano come le ruote d’un molino.

— Prendiamo terra?

— È impossibile! Quelle maledette rive si alzano sempre a picco.

— E allora?

— Guardate bene dinanzi a voi, signor Devandel. Non vedete nulla?

— Sì, gli occhi fosforescenti del giaguaro, che pare domandino delle bistecche umane.

— Spingete lo sguardo sopra la testa di quel bestione, che in questo momento non vale nemmeno un miserabile coniglio. Non vedete una linea oscura?

— Sì, la vedo.

— Sapreste dirmi che cos’è?

— Un enorme ammasso di tronchi d’albero, che le prime rocce della rapida hanno fermato.

— Niente affatto: è un isolotto, signor mio; e guido la nostra imbarcazione verso quella terra, che ci darà la salvezza, e ci sbarazzerà anche [p. 23 modifica]del giaguaro senza nemmeno sprecare una carica di polvere. Vedrete che sarà il primo a fuggire: no sono sicurissimo. E ditemi: sono lontani Harry e Giorgio.

— Ci seguono sempre a tre o quattrocento passi.

— Quei due furbi non si lasceranno scappare una così bella occasione per levare le loro gambe da questa tremenda sorbettiera. Anche loro a quest’ora devono aver scorto l’isolotto, e ne profitteranno.... E gl’indiani?

— Lasciateli andare per il momento. Sapremo ritrovare più tardi Minehaha ed anche il vecchio Nube Rossa.

— Ci tieni sempre a riavere la tua capigliatura?

— Molto signor Devandel! Mi crederei disonorato dinanzi a tutti gli scorridori di prateria, se non me la riprendessi.

Attento ora, perchè l’urto sarà brusco. —

Un isolotto di dimensioni abbastanza vaste, coperto di fitti alberi, pareva fosse emerso improvvisamente dal fiume. Dietro di esso la rapida muggiva e scrosciava spaventosamente, come se fosse rabbiosa di non aver ancora potuto ingoiare quell’ostacolo che frenava la corsa delle acque.

John, tenendo ben ferma la scure che gli serviva, per modo di dire, di timone, dirigeva il tronco verso quella piccola terra comparsa così in buon punto per salvarli da un terribile capitombolo dentro la rapida.

Non si occupava più del giaguaro, il quale d’altronde si accontentava di soffiare sul muso a Curlam, come fanno i gatti quando sono in collera, ma senza osare assalirlo.

D’altronde il grosso mastino colle sue poderose mascelle armate di denti d’acciaio non era un avversario disprezzabile.

La corrente aveva aumentata la sua velocità, come se fosse impaziente di farsi inghiottire dalla cateratta.

Delle vere onde scuotevano il lungo tronco facendolo ballonzolare e minacciando di portar via i due uomini, i quali, irrigiditi dal freddo com’erano, non si trovavano più in grado di opporre una seria resistenza.

— Tenetevi ben fermo, signor Devandel, — non cessava di ripetere l’indian-agent.

— Non ne posso più! — rispondeva il giovane. — Non so più se abbia le gambe attaccate o no.

— Un momento ancora e poi ci scalderemo. Ho l’acciarino, ed il legname non manca sull’isolotto. —

La corrente precipitava sempre più, tumultuando e scrosciando.

Il tronco di pino filava rapido come una freccia. Guai se avesse imboccato qualcuno dei numerosi passaggi della rapida!

Nessuno dei quattro uomini si sarebbe certamente salvato.

[p. 24 modifica]— Attenzione! Stringete le ginocchia! — gridò a un tratto l’indian-agent.

Il tronco si sollevò a prora, scaraventando lontano il giaguaro, poi si arrenò bruscamente sfondando una larga fascia di fitti cespugli che coronava l’isolotto.

— Presto, a terra! — gridò John.

Con uno sforzo supremo ritrassero le gambe incrostate di ghiaccio e salirono, traballando come due ubriachi, la riva, mettendosi a saltare disperatamente per riattivare la circolazione del sangue.

Un mezzo minuto dopo anche il tronco montato da Harry e da suo fratello si gettava dinanzi all’isolotto, uscendo più che mezzo dalle acque per la grande spinta della corrente.

— Avanti, amici! — gridò John, il quale non cessava di saltare. — La porta dell’albergo è aperta, ma fate attenzione al portiere. Ora che è a terra il giaguaro, è capace di gettarsi su di noi. —