Le Aquile della steppa/Parte prima/Capitolo X

Parte prima — Capitolo X
Hossein alla riscossa

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CAPITOLO X.


Hossein alla riscossa.


I Sarti ed i loro compagni avevano finito per riprendere una parte dei loro cavalli, i quali, dopo una galoppata sfrenata attraverso la pianura, passato il panico, erano tornati in buon numero verso i loro padroni, sicchè non fu difficile a Tabriz di sceglierne due e di condurli dinanzi al beg.

— Padrone, che cosa vuoi fare? — chiese il gigante. — I banditi sono ormai lontani. E questi animali sono troppo stanchi.

D’altronde hanno alle calcagna Hossein e anche Abei.

— È partito anche Abei?...

— Sì, padrone. Eccolo laggiù che galoppa con un gruppo di Sarti.

— Accorriamo! — gridò il beg, balzando in sella. — Andiamo a difendere le vostre famiglie, Sarti, e ricordatevi che non si deve accordare quartiere alle Aquile della steppa. —

Due centinaia di cavalieri avevano risposto all’appello e si erano stretti intorno al vecchio ed a Tabriz.

Gli altri correvano ancora dietro ai loro animali, poichè tutti non erano ancora tornati e non pochi erano rimasti sul luogo, trovandosi nell’impossibilità di seguire il beg, essendosi le loro cavalcature storpiate.

— Avanti! — tuonò Giah Aghà. — Cerchiamo di prendere una terribile rivincita. —

La truppa si era messa in corsa, preparando i moschettoni e le pistole. Non si dirigeva verso la casa di Talmà, non scorgendosi da quelle parti alcun cavaliere, bensì verso il villaggio, udendosi in quella direzione ancora qualche sparo.

— Padrone, — disse Tabriz, che cavalcava a fianco del beg, — riescirà Hossein a raggiungere quei miserabili? —

Il vecchio fece un gesto disperato:

— Non mi aspettavo una simile sorpresa! Povero Hossein, povero ragazzo, impazzirà!... Per conto di chi hanno agito quei ladri?.... Vi è qui sotto un mistero che non riesco a dilucidare.

— No, padrone, le Aquile non hanno rapita Talmà per [p. 86 modifica]tenersela loro. Qualche Khan, o qualche Emiro deve entrarci nella partita.

— È quello che sospetto anch’io — rispose il beg, con un sospiro. — Ma per quanto corrano quei banditi, noi sapremo ritrovarli, prima che lascino la steppa. Ah!...

— Cos’hai padrone?

— Hai ben guardato i rapitori?

— Mi è stato impossibile. Sono stato scaraventato a terra così malamente, che quando mi sono rialzato i banditi erano già lontani.

— Sai chi ho veduto fra di loro?

— Non lo saprei padrone.

— Alcuni di quei suonatori che accompagnavano il mestvire.

— Impossibile!...

— Li ho perfettamente riconosciuti.

— Dunque quel cane d’un cantastorie è un alleato delle Aquile! forse una loro spia! — esclamò il gigante, digrignando i denti. — Lo accopperò con un pugno!... Bisogna ritrovarlo a qualunque costo.

— È per questo che torno più che in fretta, — disse il beg.

— Io l’ho veduto nel momento in cui ci preparavamo a lasciare la casa di Talmà, avviarsi verso il villaggio dei Sarti.

— Preghi Allah di non farsi trovare!...

— Mentre io pregherò di lasciarcelo catturare, — rispose il beg. — Se lo trovo non uscirà vivo dalle mie mani. Gli ho riserbato un supplizio che gli farà maledire il giorno in cui è venuto al mondo!... —

La banda, che si era aumentata d’un altro manipolo di cavalieri, passò al galoppo dinanzi alla casa di Talmà, che era guardata da una dozzina di servi armati e proseguì la corsa velocissima verso il villaggio, che si distingueva vagamente in lontananza, illuminato dagli ultimi raggi del sole tramontante.

Le detonazioni erano cessate ed una grande calma, rotta solo dal galoppo precipitato dei cavalieri, regnava sulla landa sterminata.

Tutti aguzzavano gli sguardi, tormentando i grilletti dei loro fucili, impazienti di far pagare alle Aquile il loro infame tradimento; ma nessun cavaliere appariva sulla distesa verdeggiante.

I banditi, dopo d’aver fatto una dimostrazione ostile contro il [p. 87 modifica]villaggio, dovevano essersi dispersi. Ciò d’altronde non sorprendeva nessuno, essendo abitudine dei banditi della steppa di dividere le loro forze, per fare due attacchi simultanei, in modo da confondere e disorganizzare gli assaliti.

Bastarono tre quarti d’ora ai cavalieri del beg per attraversare la distanza che separava la casa di Talmà dal villaggio dei Sarti.

I vecchi, rimasti a difesa delle donne e dei fanciulli, erano schierati dinanzi alle prime case e sulle terrazze, coi loro bravi moschettoni in mano ed i kangiarri ed i jatagan alla cintura.

Quantunque non più giovani, erano ancora formidabili guerrieri, capaci di difendere lungamente le loro case.

— Le Aquile? — chiese il beg, appena fu in mezzo a loro, mentre Tabriz lo aiutata a scendere da cavallo.

— Scomparse, signore, — rispose un vecchio dalla lunga barba bianca, che si era improvvisato conduttore dei suoi compagni. — Non hanno fatto che alcune scariche, poi si sono allontanate verso il settentrione.

Sembra che non avessero alcuna intenzione di assalire il villaggio.

— Conosci il mestvire?

— Il narra-istorie che suona la guzla?

— Sì, — rispose il beg.

— Mezz’ora fa era ancora qui e scommetterei che si trova in qualche casa.

— Non è partito colle Aquile?

— No, beg, di questo ne sono certo.

— L’avevi mai veduto, prima che si spargesse la voce del matrimonio di mio nipote con Talmà?

— Mai, signore.

— Non sai da dove sia venuto?

— Sarà caduto dall’Afganistan, dal Belucistan o dalla Persia.

— Hai udito. Tabriz? — chiese il beg.

— Sì, padrone, — rispose il gigante. — Bisogna prenderlo vivo o morto.

— Morto!... Vivo, Tabriz: egli sa certo molte cose e deve parlare. —

Poi, volgendosi verso i cavalieri che gli stavano d’intorno, aggiunse:

[p. 88 modifica]— Circondate il villaggio voi e, se il mestvire cerca di fuggire, prendetelo, ma vivo, mi avete udito, vivo lo voglio! —

I due o trecento cavalieri, che scortavano il vecchio beg, si dispersero colla rapidità del lampo, formando intorno al villaggio un cerchio immenso, essendosi disposti ad una notevole distanza l’uno dall’altro.

Era impossibile che un uomo, per quanto agile e risoluto, avesse potuto guadagnare la steppa inosservato, senza cadere sotto i colpi dei Sarti e degli amici loro, accorsi a prendere parte alle feste matrimoniali di Hossein e della bella Talmà.

Prese quelle disposizioni, il beg, seguito da una cinquantina d’uomini, fra vecchi e giovani era entrato nelle strette viuzze del villaggio, risoluto a scovare il birbaccione. I lettori sanno il resto e conoscono l’orrendo supplizio del gesso, fattogli subire dall’implacabile beg. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Subito dopo la morte del mestvire, il beg, seguito da Tabriz e da Abei, si era diretto verso una delle migliori case del villaggio, che gli abitanti avevano messo a sua disposizione e che, quantunque in piccolo, rassomigliava un po’ a quella di Talmà, avendo una terrazza, una galleria che le girava d’intorno e cortili chiusi.

Doveva essere la casa di qualche signore della borgata, poichè, oltre le cose accennate, aveva sul dinanzi un peristilio sorretto da colonnette di legno, l’aivane, sotto il quale i Sarti usano mangiare e riposarsi durante le giornate caldissime; all’indietro il migmankama, ossia l’appartamento destinato alle donne, con profonde nicchie destinate a contenere i cofani e gli arnesi dell’economia domestica.

Il beg, che sembrava di pessimo umore, era passato nella sala centrale, tutta crivellata di buchi, aperti nello spessore dei muri e con una specie di pozzo nel mezzo, pochissimo profondo, ove i Sarti usano deporre gli oggetti d’uso giornaliero, ossia il vaso che serve per preparare il the, la grossa brocca che adoperano per le abluzioni, che usano fare al mattino ed alla sera, qualche libro onde l’ospite, se è letterato, cosa piuttosto rara nella steppa, possa passare qualche ora ed il piatto di rame, finamente cesellato, su cui si servono il caffè, i pasticcini dolci, le pipe ecc. alle persone che vanno a fargli visita.

[p. 89 modifica]Il beg si era lasciato cadere su un tappeto di feltro, prendendosi la testa fra le mani, mentre Tabriz bestemmiava a mezza voce ed Abei giuocava distrattamente coi bottoni della sua ricchissima giacca di seta bianca, come se nessuna preoccupazione grave lo tormentasse. Pareva che la disgrazia toccata al cugino non lo avesse troppo scosso e tanto meno la morte del povero mestvire.

Tabriz, vedendo che l’oscurità cominciava ad invadere la stanza, accese una candela di sego piantata su ad un pezzo di legno appeso alla vòlta, sprigionando un fumo densissimo e nauseabondo.

Già il Sarto è molto economo in fatto di luce. Se è un benestante, fa uso di candele di sego, se è un povero lavoratore, adopera un semplice stoppino di cotone immerso in un pessimo olio, che dà più fumo che luce o semplicemente fa uso di un bracere che colloca su una tavola. È bensì vero che non ama vegliare molto e che alle nove si corica.

— Padrone, — disse Tabriz, che tendeva gli orecchi, — non sono ancora di ritorno? Che li abbiano raggiunti? —

Il beg, per la seconda volta, aveva fatto un gesto di scoraggiamento.

— Non è possibile, — rispose poi, con un lungo sospiro. — Li vedremo giungere a mani vuote.

— Che cosa faremo? Che il mestvire abbia detto proprio il vero?

In tal caso la persona che ha fatto rapire Talmà si troverebbe a Samarcanda. E chi sarà l’Emiro che ha udito a decantare la bellezza della fanciulla? —

Il beg era rimasto muto: pareva che la robusta fibra di quel vecchio si fosse tutta d’un colpo infranta.

Tabriz, non ricevendo risposta si volse verso Abei, che stava sdraiato su un tappeto guardando distrattamente la fiamma della candela che il venticello notturno, ingolfandosi attraverso le strette feritoie che servivano da finestra, alzava ed abbassava.

— Che cosa ne dici tu, signore? — gli chiese.

— Che sarebbe necessario andare a Samarcanda, — rispose il giovane con un sottile sorriso. — Il momento veramente non sarebbe troppo buono, perchè quella città è ora occupata da stranieri.

— Da chi? — chiese il beg scuotendosi.

— Dai russi, padre — rispose il giovine.

— Chi te lo ha detto?

[p. 90 modifica]— Un turcomanno, che stamani è venuto qui ad assistere alle feste. Si dice che il governatore russo del Turchestan prepari anzi una spedizione per punire severamente le tribù dei Bechs, che si sono ribellate all’Emiro di Bukara. —

In quel momento un galoppo fragoroso, che si propagò rapidamente attraverso le strette viuzze della borgata, fece balzare vivamente in piedi il beg e Tabriz.

— Ritornano! — esclamarono entrambi.

Abei era diventato un po’ pallido ed una improvvisa ansietà si era dipinta sul suo viso.

— Sono essi, padrone! — gridò Tabriz, correndo verso la porta. — La riconducessero almeno! —

Anche Abei si era rialzato e, per non tradire la sua emozione, si era abbassato sulla fronte il ricco turbante, tirandosi innanzi le due larghe fasce multicolori che gli pendevano sulle spalle.

Il galoppo era cessato, ma giù nella via si udivano numerose persone a vociare. Domande e risposte s’incrociavano fra i cavalieri e gli abitanti usciti tutti nelle vie e sulle terrazze.

Tabriz aveva appena aperta la porta, quando Hossein comparve coperto di polvere ed il viso disfatto da un dolore così intenso, che Abei fu costretto, a volgere altrove gli occhi.

Il vecchio beg gli mosse incontro, stringendoselo al petto.

— Nulla, è vero? — chiese.

— Fuggiti, padre, portando con loro la mia felicità, — singhiozzò il giovane. — I miserabili!... che cosa aveva fatto loro Talmà?... Ah padre!... Mi pare che il mio cuore se ne vada a pezzi!...

— Noi sapremo ritrovarla, Hossein.

— Ma forse non più viva, — disse il giovane con un rauco singhiozzo. — Ho sete di sangue, padre!... Bisogna che uccida!...

— Le uccideremo queste maledette Aquile, te lo prometto, Hossein, dovessi consumare tutta la mia fortuna.

Intanto sappiamo dove i rapitori si dirigono e questo è già molto.

— Sì, a Kitab.

— No, t’inganni, a Samarcanda, — disse il beg.

— Chi te lo ha detto? — gridò il giovane.

— Il mestvire, che io ho fatto morire fra le strette del gesso poche ore or sono; quel miserabile era la spia delle Aquile.

— Quel miserabile ti ha ingannato, padre.

[p. 91 modifica]— Ma no, — disse Abei, che si era fatto innanzi e che pareva in preda ad una vera costernazione. — L’ha confessato prima di morire, cugino.

— Ha mentito! — gridò Hossein. — È a Kitab, che hanno condotto o che stanno conducendo Talmà.

— Chi te lo ha detto? — chiese il beg, stupito.

— Uno di quei banditi che ferii dapprima con un colpo di fucile e che poi, quando mi ebbe confessato dove portavano Talmà, uccisi con un colpo di kangiarro.

— Chi avrà detto il vero? Quello od il mestvire.

— Il mestvire, io credo — disse Abei.

— No, il bandito, — disse invece Hossein. — Era tanto spaventato vedendomi sopra di lui coll’arma alzata, che non credo possa aver mentito in quel momento. È a Kitab che noi troveremo Talmà, il mio cuore me lo dice.

— Tabriz, — disse il beg, dopo un breve silenzio. — Tu sei stato in quella città?

— Sì, padrone, — rispose il gigante. — Mia madre era una Shagrissiab, parente del Beg Djurà bey.

— Sicchè hai delle conoscenze in Kitab.

— Degli amici, padrone.

— Quanto tempo ti occorre per arruolare cinquanta uomini? Tra gli ospiti qui venuti e che appartengono per la maggior parte a tribù bellicose, potrai trovare facilmente degli uomini decisi a tutto. La mia borsa è aperta: spendi liberamente.

— Fra un’ora saranno qui. Ho veduto non pochi Ghirghisi e Shagrissiabs fra di loro e quella gente, per pochi tomani, giuoca la pelle, senza guardarsi indietro.

— Va’: non bisogna perder tempo.

— Padre! — esclamò Hossein, mentre Tabriz usciva frettolosamente.

— All’alba partirai con Abei, — disse il beg. — Forse giungerai a Kitab, contemporaneamente alle Aquile e potrai impedire a quei miserabili di consegnare Talmà a colui che le ha incaricate di rapirla.

Bisogna far presto. Da un momento all’altro i russi possono giungere.

— I russi!... — ripetè Hossein.

[p. 92 modifica]— Sì, muovono verso i Shagrissiabs, Tabriz lo ha saputo, e quei dannati moscoviti non tarderanno ad assediare la città.

Tu devi giungere colà prima di loro. Abei ti aiuterà nella tua impresa. —

Il giovane pallido, che si teneva nell’angolo meno illuminato della stanza, aveva fatto una brutta smorfia.

— Hai capito, Abei? — disse il beg, stupito di non ricevere risposta. — Spero che non avrai paura di attraversare la steppa con tuo cugino.

— Un simile viaggio coi russi in campagna, non sarà facile, padre, — rispose Abei.

Un lampo terribile avvampò negli occhi del vecchio beg.

— E che? — gridò con voce tuonante. — Avresti tu paura? Saresti un figlio degenere di tuo padre? Egli morì in battaglia di fronte al nemico e cadde da eroe.

— Sono pronto a morire per la felicità di mio cugino, padre, disse Abei frettolosamente. — Tu sai che io lo amo come mio fratello e che non ho paura dei banditi della steppa.

— Perdonami, sai se io sono violento, — disse il beg. — È il mio carattere.

— Fra me e te, Abei, faremo tremare le Aquile — disse Hossein. — E se è vero che Beg Djura bey ha fatto rapire da loro la mia Talmà, noi frugheremo le sue viscere colle punte dei nostri kangiarri.

— Sì, cugino, — rispose Abei. — Talmà ricadrà nelle tue mani.

— Andate a riposarvi onde essere pronti per domani mattina, — disse il beg. — Ho bisogno di essere solo.

— È impossibile che io possa dormire, — disse Hossein, prendendosi il capo fra le mani, con un gesto disperato.

— Triste notte di nozze!... Mi avessero almeno ucciso le Aquile!

— E la vendetta?... Un uomo della steppa non muore invendicato, — disse il beg con voce sorda. — Uscite, l’uomo deve essere forte prima della battaglia. —

Poi, avvicinandosi a Hossein che pareva facesse degli sforzi prodigiosi per frenare le lagrime, aggiunse con voce raddolcita, ponendogli le mani sulle spalle:

— Giuro su Allah, che chiunque possa essere l’uomo che ha [p. 93 modifica]fatto rapire Talmà, e che ha infranta la tua felicità, proverà il filo del mio kangiarro. Giah Aghà non ha mai mancato ai suoi giuramenti e ne avrai la prova. —

Abei, udendo quelle parole, era diventato livido, poi il suo sguardo obliquo s’era fissato, con terribile intensità, su suo cugino.

— Andate, — disse il beg. - Ecco Tabriz che ritorna. —

I due giovani erano appena usciti, quando il gigantesco turcomanno comparve.

— È fatto, padrone — disse.

— I cavalieri?

— Arruolati: venti tomani, a spedizione finita.

— Chi sono?

— Quasi tutti Shagrissiabs e Sarti.

— Solidi?

— Gente rotta alla guerra. —

Il beg stette un momento pensieroso, poi, accostandosi lentamente al gigante e battendogli famigliarmente su una spalla, gli chiese:

— Che cosa ne pensi tu di Abei?

— Perchè mi fai codesta domanda, padrone? — chiese il gigante con profonda sorpresa.

— Credi tu che ami veramente Hossein?

— Tu!... Padrone!...

— Veglierai su Abei, — disse il beg con voce imperiosa.

— Su tuo nipote?...

— Egli non mi pare franco, Tabriz! È un po’ di tempo che io lo osservo e che noto in lui delle continue esitazioni.

Egli è geloso di Hossein, geloso della sua lealtà, del suo coraggio, della sua bellezza, e forse d’altro ancora.

— Padrone!...

— All’alba: lo hai detto agli arruolati?

— Sì, saranno qui tutti, dinanzi alla porta.

— Tu conosci Sagadska.

— Il capo degli Illiati?

— Sì.

— Egli potrà darti forse delle informazioni preziose. Di là devono passare le Aquile, se è vero che si recano a Kitab.

— Vedrò quel capo.

— Va’ a coricarti: è già tardi.

[p. 94 modifica]— Sì, padrone.

— E veglia su Hossein e bada ad Abei.

— Te lo prometto.

— Va’! —