La sesta crociata, ovvero l'istoria della santa vita e delle grandi cavallerie di re Luigi IX di Francia/Parte seconda/Capitolo XV

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Capitolo XV.

Come ci arrestammo davanti il fiume di Rosetta, e di ciò che ’l Re vi dispose, e lo nuovo Almirante vi contrappose.


Or dunque a proseguire nostra materia, diciamo che quel fiume scende in Egitto, e vi gitta sue branche per mezzo la pianura, com’io v’ho già detto, delle quali branche l’una viene a Damiata, l’altra ad Alessandria, la terza a Tanes, e la quarta a Rosetta. A quella branca che s’addirizza a Rosetta andò il Re di Francia a tutta sua oste, e pose gli alloggiamenti tra esso fiume e quello di Damiata. E là trovammo tutto il podere del Soldano alloggiato sulla riva del fiume di Rosetta per guardare e proibircene il passaggio. Ciò che loro era cosa ben agevole a fare, poiché nullo di noi non avrebbe saputo passare s’egli non si fusse messo a nuoto, non avendovi punto di guado. Il Re ebbe consiglio in lui di far gittare un dicco per a traverso la riviera per passare ai Saracini; e per mettere a [p. 76 modifica]salvaguardia quelli che farebbono il dicco fe’ costrurre due grossi belfredi che si appellano Gatti incastellati, perciò che ci avea due castelli davanti i gatti e due casematte di dietro per tollerare lo stoscio de’ cantoni che i Saracini gittavano con ingegni e difìci, e di questi ne aveano ben sedici tutti a dritto, donde facevano meravigliosi trabocchi. Il Re fece fare altresì diciotto ingegni, de’ quali fu mastro trovatore e fattore un Giossellino di Curvante. Il fratello del Re agguatava i gatti di giorno, e noi altri Cavalieri sì gli agguatavamo la notte. E si fu la settimana innanzi Natale che i gatti incastellati furono presti, e poi si cominciò a fare il dicco. Ma quanto se ne faceva, li Saracini aitanto ne disfacevano di lor parte. Perchè dal lor lato, tutto di contro l’argine, facean seno della riva e vi scavavano larghi fondacci; sicchè, come l’acqua per lo argine nostro s’arretrava, ed ella tosto piegava a riempiere i fossati opposti; perchè avveniva che ciò che noi ammontavamo a stento in tre settimane o in un mese, essi mantenendo la larghezza del fiume, il frustravano agevolmente in un giorno od in due, guastando tuttavia a grandi colpi di frecce e bolzoni le nostre genti che portavano terra per avanzar la traversa.

I Turchi, quando il loro Soldano fue morto della malattia che gli prese davanti Hamano, fecero lor Capitano di un Saracino che si appellava Sceceduno figliuolo del Seicco1 lo qual Capitano era stato armato Cavaliere dallo Imperatore Federico. [p. 77 modifica]E tantosto quel Sceceduno inviò una parte delle sue genti a passare di verso Damiata ad una piccola città chiamata Surmesac, la quale è sul fiume di Rosetta, e vennero a cadere da quel lato sulle nostre genti. E il proprio giorno di Natale, in quel tanto ch’io era a desinare col mio compagno d’armi Pier d’Avalone, e tutti i Cavalieri nostri, li Saracini entrarono nell’oste, e vi uccisero alquanti poveri che se n’erano ai campi sbandati. E incontanente noi montammo a cavallo per andare alla riscossa, donde gran mestieri ne era a Monsignor Perrone nostr’ospite, che si trovava fuora dell’accampamento, perchè avanti che fussimo là li Saracini l’avean già preso, ed ammenavano lui e suo fratello il Signore di Val. Allora noi piccammo degli sproni, e corremmo su i Saracini e riscuotemmo que’ due buoni Cavalieri ch’avean già messi per terra a gran forza di colpi, e li rammenammo nell’oste. I Tempieri ch’erano all’erta fecero bene ed arditamente la retroguarda, ma con tutto ciò li Turchi ci venivano sopra di gran coraggio da quel lato guerreggiandoci forte e fermo, sino a che il nostro accampamento non si fu chiuso di fossato di verso Damiata, da quel fiume là insino al fiume di Rosetta.

Quel Sceceduno Capitano de’ Turchi, di cui ho parlato qui davanti, era tenuto il più valente e prode di tutta Paganìa. Egli portava nelle sue bandiere le armi dello imperadore che l’avea fatto Cavaliere, ed era la sua bandiera partita in banda, e nell’una banda e’ portava armi parecchie a quella del Soldano [p. 78 modifica]d’Aleppo, e nell’altra le armi del Soldanato di Babilonia. Suo nome era Sceceduno, com’io v’ho detto, figliuolo del Seicco, che tanto vale a dire in lor lingua, come nella nostra figliuolo del Veglio: ed un tal nome tenevano essi tra loro a gran cosa, perciò che sono le genti che più onorino i vecchi ed antichi, solo ch’essi si sieno guardati in giovinezza d’alcun malvagio rimproccio. Ora codesto Capitano, così come fu rapportato al Re per ispie, si vantò ch’e’ mangerebbe nella tenda del Re di Francia innanzi il giorno di S. Sebastiano ch’era prossimano a venire2.

Or quando il Re ciò intese, egli disse che se ne prenderebbe ben guardia, e serrò sua oste e ne dette l’intesa alle sue genti d’arme. Donde il Conte d’ Artese suo fratello fu commesso a guardare i belfredi e gl’ingegni; il Re ed il Conte d’Angiò, che dipoi fu Re di Sicilia, furo stabiliti a guardare il campo verso Babilonia, e il Conte di Poitieri ed io Siniscalco di Sciampagna a guardare il campo di verso Damiata. Ora avvenne tantosto, che quel Capitano de’ Turchi, avanti nominato, fece passare sue genti nell’isola che era tra lo fiume di Damiata e lo fiume di Rosetta, ove erano i nostri alloggiamenti, e fece arringare sue battaglie da l’un de’ fiumi sino all’altro. Il Conte d’Angiò, ch’era in quella parte, corse sui detti Turchi e ne isconfisse tanti da metterli in fuga, e molti ne furo annegati in ciascuno de’ detti fiumi. Ma tuttavia, egli ne dimorò gran parte, a chi nissuna cavalleria osava [p. 79 modifica]di urtare per li diversi ingegni ch’elli avevan tra loro, e de’ quali n’uscian per noi grandi mali. E a quella fiata che il detto Conte di Angiò assalì li Turchi, il Conte Guido di Forestà che era in sua compagnia; sdrucì a cavallo lui e suoi cavallieri per tra la battaglia de’ Turchi, e tirò oltra sino a un’altra battaglia di Saracini, e là fece maraviglie di sua persona. Ma ciò non ostante fu egli gittato a terra e n’ebbe la gamba spezzata, ed a braccia nel rimenarono due de’ suoi Cavalieri. E ben sappiate che a molto gran pena si potè ritrarre il Conte d’Angiò di quella mislèa, ove egli molte fiate fu in grande periglio, sicché dappoi ne fu molto pregiato di quella forte giornata. Al Conte di Poitieri ed a me accorse un’altra gran battaglia dei detti Turchi. Ma siate certi che molto bene furono ricevuti ed altrettanto serviti. E ben bisogno lor fu ch’e’ trovassono la via per ove essi erano baldamente venuti, poiché ne femmo un’abbondosa tagliata, e ritornammo a salvezza negli alloggiamenti senza avere come niente perduto di nostre genti.

  1. Altri: Facradino, o Farcardino.
  2. Il 20 Gennaio 1250.