La sesta crociata, ovvero l'istoria della santa vita e delle grandi cavallerie di re Luigi IX di Francia/Parte seconda/Capitolo LVI

Capitolo LVI

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Capitolo LVI.

Come assalimmo la Città di Belinas, e del pericolo nel quale fui capitanando la prima battaglia del Re.


L’altro giorno inseguente il Re e sua oste se n’andò davanti la città di Sur, che è appellata Tiro nella Bibbia; e là fu il Re parimente intalentato d’andare a prendere una città ch’era colà presso, e che aveva in nome Belinas. E gli consigliarono le [p. 222 modifica]sue genti che il devesse fare, ma ch’egli non ci dovesse punto essere, ed a ciò s’accordò finalmente a gran pena. E fu appuntato che il Conte d’Angiò andrebbe, e Messer Filippo di Monforte, il Sire di Sur Messer Gillio il Bruno Connestabile di Francia, Messer Piero il Ciambellano, ed i Maestri del Tempio e dello Spedale colle loro genti d’arme. E poi sulla notte noi ci armammo, e venimmo un poco appresso la punta del giorno in una pianura ch’era davanti la città di Belinas appellata nelle antiche Scritture Cesarea di Filippo. Ed è sedente quella città sovra una bella fontana che l’uomo appella Gior; e ne’ piani che sono davanti quella città ci ha un’altra molto bella sorgente, che ha in suo diritto nome Dan; e s’inframmischiano insieme i ruscelli di quelle due fontane alquanto lunge dalla città, ed il fiume che se ne fa è appellato unitamente Giordano là ove Gesù Cristo nostro Signore fu battezzato.

Per lo consiglio del Conte d’Angiò, de’ Maestri del Tempio e dello Spedale, e de’ Baroni del Paese fu avvisato che la battaglia del Re, ove io era per allora co’ miei Cavalieri, e coi quaranta Cavalieri Sciampagnesi che il Re mi aveva di già dato a bailire, andremmo ad interporci tra la città ed il castello; Messer Gioffredo di Sergines ed i produomini del Paese che erano con noi tenterebbono la città a man sinistra; gli Spedalieri a man destra; ed il Maestro del Tempio e sua compagnia, insisterebbono sulla via che noi altri della prima battaglia avremmo battuto. E adunque ciascuno s’ismosse a [p. 223 modifica]partire e noi approcciammo sino incontra la città per di dietro, e trovammo là alquanti di nostre genti morti, che i Saracini, dopo ch’e’ si erano traforati nella città, avevano uccisi e fuorgittati. E dovete sapere che la costa per ove noi dovevamo salire era assai perigliosa; perchè in primo luogo ci avevamo tre muri a sorpassare, e poi il dirupo era così infranto e smottato che nullamente vi si poteva tenere a cavallo: e nell’alto del colle ci avea gran quantità di Turchi a cavallo là veramente ov’egli ci conveniva montare. E in quella io vidi che taluno de’ nostri a un cotal luogo rompevano le mura della città, ed io mi volli tirare ad essi cavalcando. Un Cavaliero de’ miei pensò allora varcare in salto il muro, ma il cavallo gli cadde sovra rovescione; per che quando vidi ciò, mi discesi a piè, e presi il mio cavallo per lo freno, e la spada in pugno montammo arditamente contramonte quel colle. E allorchè li Turchi, ch’erano in sull’alto, ci videro andare ad essi sì fieramente, così come volle Iddio, se ne fuggirono e ci lasciarono lo spiazzo franco. E in quello spiazzo ci avea un sentieruzzo tagliato nella roccia che discendeva nella città: perchè quando noi fummo colassù donde erano fuggiti i Saracini indirizzandosi al castello, gli altri Saracini ch’erano nella città non osarono venire a noi, e si fuggirono anzi per temenza del sovracapo, fuora della città, e la lasciarono all’altre nostre genti senza nullo dibattimento di guerra. E ben sappiate che durante ch’io era in sull’alto di quel colle il Maresciallo del Tempio udì dire ch’io era [p. 224 modifica]in gran periglio, e se ne venne a monte sino a me. Ora vi dirò ch’io aveva con me li Cavalieri Teutoni, i quali quando videro che i Turchi a cavallo si fuggirono dritto al Castello ch’era assai dilungato dalla città, ismossersi tutti per correre loro sovra malgrado mio, e non ostante ch’io loro dicessi ch’e’ facean male, perchè noi avevamo accapata la nostra impresa, e fatto ciò che ci era stato comandato di fare. Il Castello era tutto al di sopra della città ed avea in nome Subberbe, ed è intorno a mezza lega in su l’alto della montagna che l’uomo appella Libano, e ci hanno a passare molte rocce stagliate e repenti sino al Castello. Or quando i Teutoni videro che follemente essi perseguivano coloro che montavano per al castello, i quali sapevano troppo bene i tragitti e rigiri di quelle rocce, pensarono di rivenire addietro. Il che vedendo li Saracini incalzati, stettero, e poi messo piede a terra, incorsero loro sopra a ma’ passi, balzando pei noti scorci, e donando loro di gran colpi di mazze, e così ributtandoli aspramente sin verso il luogo ov’io era. E quando le genti ch’erano con me videro la iattura e il discapito in che i Cavalieri Teutoni erano condotti al discendere, e come i Saracini li perseguivano tuttavia, cominciarono a sbigottirsene e ad aver paura. Ed io loro dissi che se per avventura fuggissero, li farei tutti cassare e metter per sempre fuori dei gaggi del Re. Ed essi mi risposero: Sire di Gionville, noi abbiamo il peggio assai più che voi, perchè voi siete a cavallo per ismucciarvela quando vorrete, e noi altri siamo a piè, sicchè [p. 225 modifica]siamo a gran risico d’essere uccisi se i Saracini calassero sino a qui. Ed allora io mi discesi con essi a piede per dar loro buon coraggio, e inviai il mio cavallo nella battaglia de’ Tempieri, ch’era bene a una gran portata di ballestra da noi. E così come i Saracini cacciavano i Teutoni, là con loro si trovò un mio Cavaliere ch’un Saracino ferì di quadrello per mezzo la gola, e cadde, veggenti noi, tutto morto; ed allora mi disse un Cavaliero, ch’avea nome Messer Ugo d’Iscossato, avoncolo del mio Cavaliero morto, ch’io gli andassi âtare a portare suo nepote a valle per farlo interrare. Ma io non ne volli far niente, perchè il Cavaliero era andato correre lassù coi Teutoni oltre il mio grado, e dissi: or dunque se mal glien’è preso, io non ne posso altro. Così eravamo noi quando Messer Giovanni di Valencienne udì dire che noi eravamo in gran disarredo, ed in gran periglio di nostra vita, di che se n’andò verso Messer Oliviero di Termes ed a’ suoi altri Capitani di Linguadoco, e disse loro: Signori, io per me vi prego, e vi comando da parte il Re, che mi veniate âtare a riavere il Siniscalco di Sciampagna. Ed un Cavaliero ch’avea in nome Messer Guillelmo di Belmonte s’en venne a lui e gli disse ch’io era morto. Ma non ostante non s’ispargnò mica il buon Messer Oliviero di Termes, e volle sapere o di mia morte o di mia vita per dirne al Re sicure novelle; e venne contramonte montando sino all’alto della montagna là ove noi eravamo.

Quando Messer Oliviero fu montato e vide che noi eravamo in troppo grande periglio, e che non [p. 226 modifica]avremmo potuto discendere per ove eravamo montati, egli ci donò un buon consiglio: perchè ci fece discendere per un versante ch’era in quella montagna, come se noi avessimo voluto andare a Damasco: e diceva che i Saracini si ritrarrebbono al Castello pensando che noi li volessimo andare a sorprendere per didietro. E poi quando noi fummo discesi sino alla pianura, ci fece mettere il fuoco in tutte le biche del tormento ch’era ne’campi, e così ritraendoci dietro quella parata di fumo tanto femmo che venimmo a salvezza pel buon consiglio di Messer Oliviero, e la dimane ci rendemmo a Saetta la ov’era il Re. E trovammo che il buon sant’uomo avea fatto interrare li corpi de’ cristiani ch’erano stati uccisi, ed egli stesso aiutava a portarli in terra. E sappiate che ce n’avea alcuni, i quali erano isfatti e putenti tanto che coloro che li portavano se ne istoppavan le nari, ma il buon Re nol faceva mica. E quando noi fummo arrivati di verso lui, egli ci avea di già fatto fare le trabacche nostre e gli alloggiamenti.