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Trovasi questo cenno nei Notatorj inediti del Gradenigo presso il Museo Civico di Venezia, alla data 23 ott. 1759: «Nel Teatro di S. Salvatore [opp. S. Luca] si rappresenta una Comedia intitolata la Scuola del Ballo Comedia in 5 Atti, in una Scena sempre stabile, in versi di terza rima, composta dal Sig. Dottor C. Goldoni Poeta». Ma alle speranze dell’autore non corrispose l’esito della recita. Pur troppo il Vendramin era stato profeta, quando scriveva: «di una Comedia in Terzetti io temo, non per la Comedia, ma per il verso» (lett. dei 25 ag., l. c., 134); e invano erasi illuso il dottor veneziano («A quest’ora ella avrà letta la comedia in Terzetti, e son certo le sarà piaciuta, e mi comprometto, che quei versi e quelle rime vogliano dar piacere al Teatro»: lett. 28 ag., l. c., 140). — Vero è che più tardi il Goldoni non tentò nemmeno di difendere l’infelice componimento. Solo nella prefazione al primo tomo dell’ed. Pasquali, nel 1761, toccando la questione della lingua viva nelle commedie e condannando, contro cruscanti e granelleschi, l’uso dei «rancidi riboboli» toscani, così concludeva: «Non è malfatto, anzi è lodevolissimo, che siavi chi prenda cura di conservare una lingua, che è quasi morta, poichè dagl’Italiani medesimi inusitata; ma Dio mi guardi che io di ciò m’invaghisca. Dovrei pensare a tutt’altro che a scrivere pe ’l Teatro, e a dar piacere all’universale. Due volte mi son provato di farlo. Una volta seriosamente nella Scuola di Ballo, ed ho riscosso poco meno che le fischiate; un’altra volta in caricatura nel Tasso, e ne ho riportato l’universale compiacimento. Che vuol dir ciò? Il Lettore ne tragga la conseguenza» (vol. I della presente ed., p. 5).

Forse l’amaro ricordo fece sì che la commedia non potesse trovar luogo nei 17 volumi dell’ed. Pasquali (l’ed. Pitteri, tranne l’Osteria della posta, contiene i componimenti dall’ott. 1753 al carn. 59) e che per vedere la luce dovesse aspettare l’ed. Zatta, fino all’anno 1792. Non ebbe perciò l’onore di una lettera di dedica, nè d’una prefazione. Nelle Memorie goldoniane se ne trova appena il titolo nel catalogo finale, ed è, in francese, Le maître à danser (per errore si aggiunge in nota che non fu mai recitata). Nessun capocomico, che si sappia, nè prima della stampa, nè dopo, volle esporla di nuovo al giudizio del pubblico. I lettori stessi la lasciarono da parte; perfino gli studiosi se ne dimenticarono, o quasi.

Ma per noi, tarda progenie, che spingiamo con curiosità lo sguardo nella società del Settecento, per noi è un diletto entrare in casa di monsieur Rigadon, e mescolarci agli alunni e specialmente alle alunne, e udire la sorella del maestro, la madre della ballerina, il conte protettore, e assistere ai contratti con l’impresario e col sensale, e sorridere agli amorucci che d’ogni lato s’incrociano. In questa casa si preparano alle future imprese quelle terribili seduttrici che dalle classi miserabili della società salgono a invadere sempre più i teatri nel secolo decimottavo, con gelosa invidia delle attrici comiche e delle virtuose di canto, portando in trionfo di città in città la bellezza del loro corpo e la loro corruzione. Il Goldoni, ben si capisce, tace tante cose, ma molte si indovinano. Non è la prima volta che ci presenta una ballerina. Già nell’Uomo di mondo (vol. I della presente ed.) insegnava Momolo a Smeraldina lavandaia il segreto di fare fortuna col ballo (a. I. sc. 16) e le spiegava cosa fosse il padedù (II, 12: v. i precetti di Rigadon nella Sc. di ballo V, 4). Molti anni più tardi, nella Figlia obbediente, ci viene innanzi, preceduta dalla comica e ignobile