La scienza nuova seconda/Libro secondo/Sezione seconda/Capitolo secondo

Sezione seconda - Capitolo secondo - Corollari d'intorno a' tropi, mostri e trasformazioni poetiche

../Capitolo primo ../Capitolo terzo IncludiIntestazione 15 gennaio 2022 75% Da definire

Sezione seconda - Capitolo secondo - Corollari d'intorno a' tropi, mostri e trasformazioni poetiche
Sezione seconda - Capitolo primo Sezione seconda - Capitolo terzo

[p. 164 modifica]

[CAPITOLO SECONDO]

corollari d’intorno a’ tropi, mostri e trasformazioni
poetiche

I

404Di questa logica poetica sono corollari tutti i primi tropi, de’ quali la piú luminosa e, perché piú luminosa, piú necessaria e piú spessa è la metafora, ch’allora è vieppiú lodata quando alle cose insensate ella dá senso e passione, per la metafisica sopra qui ragionata: ch’i primi poeti dieder a’ corpi l’essere di sostanze animate, sol di tanto capaci di quanto essi potevano, cioè di senso e di passione, e sí ne fecero le favole. Talché ogni metafora sí fatta vien ad essere una picciola favoletta. Quindi se ne dá questa critica d’intorno al tempo che nacquero nelle lingue: che tutte le metafore portate con simiglianze prese da’ corpi a significare lavori di menti astratte debbon essere de’ tempi ne’ quali s’eran incominciate a dirozzar le filosofie. Lo che si dimostra da ciò: ch’in ogni lingua le voci ch’abbisognano all’arti colte ed alle scienze riposte hanno contadinesche le lor origini.

405Quello è degno d’osservazione: che ’n tutte le lingue la maggior parte dell’espressioni d’intorno a cose inanimate sono fatte con trasporti del corpo umano e delle sue parti e degli umani sensi e dell’umane passioni. Come capo, per cima o principio; fronte, spalle, avanti e dietro; occhi delle viti e quelli che si dicono lumi ingredienti delle case; bocca, ogni apertura; labro, orlo di vaso o d’altro; dente d’aratro, di rastello, di serra, di pettine; barbe, le radici; lingua di mare; fauce o foce di fiumi o monti; collo di terra; braccio di fiume; mano, per picciol numero; seno di mare, il golfo; fianchi e lati, i canti; costiera di mare; cuore, [p. 165 modifica] per lo mezzo (ch’«umbilicus» dicesi da’ latini); gamba o piede di paesi, e piede per fine; pianta per base o sia fondamento; carne, ossa di frutte; vena d’acqua, pietra, miniera; sangue della vite, il vino; viscere della terra; ride il cielo, il mare; fischia il vento; mormora l’onda; geme un corpo sotto un gran peso; e i contadini del Lazio dicevano «sitire agros», «laborare fructus», «luxuriari segetes»; e i nostri contadini «andar in amore le piante», «andar in pazzia le viti», lagrimare gli orni»; ed altre che si possono raccogliere innumerabili in tutte le lingue. Lo che tutto va di séguito a quella degnitá: che «l’uomo ignorante si fa regola dell’universo», siccome negli esempli arrecati egli di se stesso ha fatto un intiero mondo. Perché come la metafisica ragionata insegna che «homo intelligendo fit omnia», cosí questa metafisica fantasticata dimostra che «homo non intelligendo fit omnia»; e forse con piú di veritá detto questo che quello, perché l’uomo con l’intendere spiega la sua mente e comprende esse cose, ma col non intendere egli di sé fa esse cose e, col transformarvisi, lo diventa.

II

406Per cotal medesima logica, parto di tal metafisica, dovettero i primi poeti dar i nomi alle cose dall’idee piú particolari e sensibili; che sono i due fonti, questo della metonimia e quello della sineddoche. Perocché la metonimia degli autori per l’opere nacque perché gli autori erano piú nominati che l’opere. Quella de’ subbietti per le loro forme ed aggiunti nacque perché, come nelle Degnitá abbiamo detto, non sapevano astrarre le forme e la qualitá da’ subbietti. Certamente quella delle cagioni per gli di lor effetti sono tante picciole favole, con le quali le cagioni s’immaginarono esser donne vestite de’ lor effetti, come sono la Povertá brutta, la Vecchiezza trista, la Morte pallida. [p. 166 modifica]

III

407La sineddoche passò in trasporto poi con l’alzarsi i particolari agli universali o comporsi le parti con le altre con le quali facessero i lor intieri. Cosí «mortali» furono prima propiamente detti i soli uomini, che soli dovettero farsi sentire mortali. Il «capo», per l’«uomo» o per la «persona», ch’è tanto frequente in volgar latino, perché dentro le boscaglie vedevano di lontano il solo capo dell’uomo: la qual voce «uomo» è voce astratta, che comprende, come in un genere filosofico, il corpo e tutte le parti del corpo, la mente e tutte le facultá della mente, l’animo e tutti gli abiti dell’animo. Cosí dovette avvenire che «tignum» e «culmen» significarono con tutta propietá «travicello» e «paglia» nel tempo delle pagliare; poi, col lustro delle cittá, significarono tutta la materia e ’l compimento degli edifici. Cosí «tectum» per l’intiera «casa», perché a’ primi tempi bastava per casa un coverto. Cosí «puppis» per la «nave», che, alta, è la prima a vedersi da’ terrazzani; come a’ tempi barbari ritornati si disse una «vela» per una «nave». Cosí «mucro» per la «spada», perché questa è voce astratta e come in un genere comprende pomo, elsa, taglio e punta; ed essi sentirono la punta, che recava loro spavento. Cosí la materia per lo tutto formato, come il «ferro» per la «spada», perché non sapevano astrarre le forme dalla materia. Quel nastro di sineddoche e di metonimia:

Tertia messis erat

nacque senza dubbio da necessitá di natura, perché dovette correre assai piú di mille anni per nascere tralle nazioni questo vocabolo astronomico «anno»; siccome nel contado fiorentino tuttavia dicono «abbiamo tante volte mietuto» per dire «tanti anni». E quel gruppo di due sineddochi e d’una metonimia:

Post aliquot, mea regna videns, mirabor, aristas

[p. 167 modifica] di troppo accusa l’infelicitá de’ primi tempi villerecci a spiegarsi, ne’ quali dicevano «tante spighe», che sono particolari piú delle messi, per dire «tanti anni», e, perch’era troppo infelice l’espressione, i gramatici v’hanno supposto troppo di arte.

IV

408L’ironia certamente non potè cominciare che da’ tempi della riflessione, perch’ella è formata dal falso in forza d’una riflessione che prende maschera di veritá. E qui esce un gran principio di cose umane, che conferma l’origine della poesia qui scoverta: che i primi uomini della gentilitá essendo stati semplicissimi quanto i fanciulli, i quali per natura son veritieri, le prime favole non poterono fingere nulla di falso; per lo che dovettero necessariamente essere, quali sopra ci vennero diffinite, vere narrazioni.

V

409Per tutto ciò si è dimostro che tutti i tropi (che tutti si riducono a questi quattro), i quali si sono finora creduti ingegnosi ritruovati degli scrittori, sono stati necessari modi di spiegarsi [di] tutte le prime nazioni poetiche, e nella lor origine aver avuto tutta la loro natia propietá. Ma poi che, col piú spiegarsi la mente umana, si ritruovarono le voci che significano forme astratte, o generi comprendenti le loro spezie, o componenti le parti co’ loro intieri, tai parlari delle prime nazioni sono divenuti trasporti. E quindi s’incomincian a convellere que’ due comuni errori de’ gramatici: che ’l parlare de’ prosatori è propio, impropio quel de’ poeti; e che prima fu il parlare da prosa, dopoi del verso.

VI

410I mostri e le trasformazioni poetiche provennero per necessitá di tal prima natura umana, qual abbiamo dimostrato nelle Degnitá che non potevan astrarre le forme o le propietá da’ [p. 168 modifica] subbietti; onde con la lor logica dovettero comporre i subbietti per comporre esse forme, o distrugger un subbietto per dividere la di lui forma primiera dalla forma contraria introducavi. Tal composizione d’idee fece i mostri poetici. Come in ragion romana, all’osservare di Antonio Fabro nella Giurisprudenza papinianea, si dicon «mostri» i parti nati da meretrice, perc’hanno natura d’uomini, insieme, e propietá di bestie d’esser nati da’ vagabondi o sieno incerti concubiti; i quali truoveremo esser i mostri i quali la legge delle XII Tavole (nati da donna onesta senza la solennitá delle nozze) comandava che si gittassero in Tevere.

VII

411La distinzione dell’idee fece la metamorfosi. Come, fralle altre conservateci dalla giurisprudenza antica, anco i romani nelle loro frasi eroiche ne lasciarono quella «fundum fieri» per «autorem fieri», perché, come il fondo sostiene il podere o il suolo e ciò ch’è quivi seminato o piantato o edificato, cosí l’appruovatore sostiene l’atto, il quale senza la di lui appruovagione rovinerebbe, perché l’approvatore, da semovente ch’egli è, prende forma contraria di cosa stabile.