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blica, non avendo giammai avuto altra fede politica; ma volle declinare ogni responsabilità e credette prudente blandire le altrui opinioni onde far convergere le simpatie sulla bandiera che aveva innalzata e dissipare le paure che destava Mauro reputato socialista, anzi comunista. Questi infatti, giungendo in Cosenza con Benedetto Musolino, aveva, si può dire, incoata la rivoluzione, ne aveva significata la legalità, lo spirito. Ma le teorie essendo sospette, come di fieri democratici, non furono gradite malgrado le moderazioni con cui le esponevano. Ad ogni modo, benchè nulla si specificasse, benchè non si parlasse nè di costituzione, nè di repubblica, benchè s’indugiasse sul resto, sopra un punto tutti si accordarono e ne formarono nucleo dell’opera, l’incompatibilità e la proscrizione della casa dei Borboni. Non fu dunque la mancanza definitiva di principio che fece naufragare la rivoluzione fomentata dal Ricciardi, come le altre erano naufragate, ma l’indecisione, l’inabilità, la paura di avanzar troppo, di demolir troppo, di violentar troppi interessi e troppi pregiudizii, il desiderio di contentar tutti, di non offendere alcuna convenienza, alcuna personalità nel tempo stesso che se ne rispettavano poche; quello spirito di eccletismo insomma, quella fatalità di transigere che in generale aveva sterilito il movimento del 1848. Ricciardi comprendeva la rivoluzione, ma non era rivoluzionario. Il rivoluzionario è simile ad una macchina a vapore che si addossa alla rotaia, e datavi l’impulsione, corre, e vola. Peggio per chi si trova sul suo cammino! n’è maciullato. Egli obbedisce ad una legge inflessibile che non si è fatta, che non può cangiare, che non si può dominare: deve toccare la meta a traverso