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parecchi punti per far desistere dall’opera, ma non ne cavarono che l’insulto di poco teneri della libertà della patria, d’improvvidi e di poltroni. La città si proclamava in preda ai nemici. Nella Camera si scongiurò di nuovo il general Pepe di mettersi alla testa di un forte manipolo di gente ed obbligare, con la forza, che quegl’impacci si distruggessero. Pepe si negò, adducendo poco innanzi averlo tentato, ed essere stato vituperato di rinnegato e di realista. Il colonnello Gallotti si negò del pari dichiarandosi impossente. Però, punto sul vivo, consentì di andarvi, con due rappresentanti, come apportatore degli ordini della Camera. Spaventa ed io lo accompagnammo; ma né le minacce, né le preghiere, né i consigli si vollero udire. Ci dissero ignari dei fatti che succedevano altrove, troppo confidenti nella propria dignità, troppo poco studiosi della nostra responsabilità in mantenere la sicurezza e la libertà del paese. Si asseverò che una grande cospirazione sarebbe scoppiata o nella notte o all’indomani, e che rappresentanza e costituzione periclitavano. Scoraggiati tornammo all’assemblea e perplessi, perché tra un nugolo di gente, per la prima volta veduta, avevamo scorto qualche amico che, illuso anch’esso, prestava il braccio ad una trama scellerata. Unitamente a noi, alle quattro del mattino, giungeva il ministro Manna, il quale, in nome del re, notificava che il giuramento non si sarebbe prestato. Essendosi infatti trovato il mezzo più comodo delle barricate, a qual pro il giuramento? La Camera non pertanto si felicitò per la sua fermezza, e si aggiornò per le nove ore, nel sito stesso, onde tutti insieme recarsi alla chiesa per la messa dello Spirito Santo, e quindi al locale dell’assemblea.