La rivoluzione di Napoli nel 1848/20. Affari di Sicilia
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20. La Sicilia era stata obliata dai rivoluzionarii napolitani, ma essa formava il cilizio del governo. Questo non aveva ancora trovato la peverada per assopire il Cerbero d’oltre Faro, come aveva assopito il patriottismo del Comitato di Napoli. Il nuovo ministero intoppò nel primo suo atto. Bozzelli semplice cittadino, Bozzelli presidente del Comitato rivoluzionario, quando col Comitato di Palermo e col suo presidente Ruggiero Settimo concertavasi la comune rivolta, aveva trovati sensati, legali e giusti i patti dei siciliani: Bozzelli ministro li trovò pretensioni svariate e moltiplici. A ragione o a torto che sia, i siciliani accagionavano ed accagionano all’unione co’ napolitani la causa di tutte le loro non poche miserie, che pure erano miserie comuni, e li odiavano. Essi erano come due cani che stretti dalla catena stessa, in luogo di volerne al padrone, attribuiscono al laccio che li stringe la schiavitù, e si mordono a vicenda. Sia comunque, i siciliani, dall’XI secolo, salvo poche interruzioni, avevan sempre goduto di una specie di costituzione municipale, come il diritto pubblico di allora le comprendeva. Francesco, padre del re attuale, nel discorso tenuto nel 1810 all’apertura del 126° parlamento in Palermo, in nome del re suo padre aveva parlato di difesa d’istituzioni politiche a cui si era con vincoli di amor patrio tenacemente attaccato, e che a tutto costo si dovevano conservare ai successori, non essendosi salvate che nelle due isole più famose del mondo, la Gran Bretagna e la Sicilia. Nell’atto con cui, nel 1° agosto 1812, il vicario generale domandava essere autorizzato sanzionare la costituzione novella, dicevasi: avere il re replicate volte dichiarato che qualora la Sicilia volesse cangiare la sua antica costituzione, egli preferiva l’inglese. Ed in effetti re Ferdinando I la sanzionava, essendo ciò secondo le sue intenzioni. L’articolo 17 di detta Costituzione proclamava il regno di Sicilia indipendente da quello di Napoli. Nel discorso della corona del 18 luglio 1814 promettevasi alla Sicilia l’esistenza sua propria e l’indipendenza politica, sacro diritto di cui doveva essere orgogliosa. Infine l’ambiguo articolo 104 del congresso di Vienna riconosceva Ferdinando re del regno delle Due Sicilie. Con questi ed altri documenti, la rivoluzione compiuta, i siciliani domandarono: libertà di reggimento restituito con la costituzione del 1812, adattata ai tempi: indipendenza da Napoli. Il ministero rifiutò da prima, dichiarando con tali concessioni offendersi il principio diplomaticamente riconosciuto dell’unità del regno. Lord Minto s’interpose: e dopo lungo discutere, dopo uno o due viaggi in Sicilia, dopo caloroso perorare presso il re, furono consenzienti: un parlamento separato, un ministero ed un Consiglio di Stato distinti, i pubblici uffici ed i beneficii ecclesiastici ai siciliani esclusivamente, e vicerè o un principe reale o un cittadino dell’isola stessa. Lord Minto apportò in Sicilia quest’ultimatum. Ma i suoi consigli al siculo parlamento furono essi sinceri? Noi lo crediamo, benchè disoneste dicerie fossero messe in voga ed accreditate dal governo napolitano, quando l’Inghilterra prese la parola per quel popolo oppresso e ne riconobbe l’indipendenza di fatto. Lord Minto però ritornò di Palermo e riferì che due questioni restavano ancora ad appianare: la composizione del parlamento misto per gl’interessi comuni, e l’organizzazione dell’armata. Sulla prima difficoltà non fu difficile la conciliazione: sulla seconda ogni buona volontà si ribellò, e nessuno volle consentire che in Sicilia non vi fosse che un’armata sicula, senza che il re potesse spedirvi mai soldati napolitani. Nuove complicazioni successero ed il ministero cadde, eccetto Bozzelli, perchè costui aveva stabilito consumare intero l’adulterio della Costituzione.
La condotta dei siciliani aveva in Napoli disgustati tutti, ed i radicali più degli altri. Non perchè non si riconoscevano validi i loro diritti, giuste le loro dimande; ma perchè essi mostravano non aver compreso il senso della rivoluzione del secolo, perchè ne falsavano e ne sviavano il cammino. Quando il principio monarchico aveva ancora una vita ed un valore, quei diritti equivalevano ad una conquista, e bene stava tenervisi fermi e vantarsene. Ma oggi non trattavasi più di aver un padrone piuttosto indigeno che straniero, piuttosto di questa che di quella casa; trattavasi non averne affatto. Non trattavasi di restituire l’autonomia alle differenti provincie d’Italia; trattavasi di ricomporre l’Italia una ed intera quale era uscita dalla mano di Dio. Non trattavasi di avere una costituzione octroyée nel 1812 piuttosto che nel 1848; trattavasi di far sorgere dal seno del popolo quella forma di governo che meglio gli fosse piaciuta, guarirci radicalmente delle schifose piaghe della monarchia, e delle difformità sociali che seco trascina. — La rivoluzione italiana ha avuto funesto successo positivamente perchè non ebbe dal bel principio un’idea fondamentale spiccata e larga, e non se ne fece il programma fedele. Gli spiriti restarono indecisi: i partiti sorsero, e quindi la fatal vanagloria di farli trionfare: le ambizioni cominciarono a travagliare, le suggestioni occulte a calunniare; ed allora sino il principio vitale della indipendenza e dell’unità d’Italia fu distornato, fu affiacchito, fu creduto chimerico ed impossibile. E questa è la sventura suprema che Italia non perdonerà giammai a quel ristucchevole sofista di Gioberti. Ma il primo attentato, bisogna dirlo alto, fu del Comitato siciliano. Esso non ha certo ben meritato dell’Italia. Era assai miserabil cosa caldeggiare ancora affetti municipali, ed aprire il varco ad odii funesti dall’accorgimento dei padroni infiltrati nei servi per domarli ed impedirne la coalizione. Era assai miserabil cosa bocconcellare in parti più distinte ancora le provincie d’Italia, quando era mestieri lavorare a fonderle in una. L’Italia non faceva un’altra rivoluzione per avere dei napolitani, dei siciliani, dei lombardi, dei romani più o meno liberi, più o meno rapprossimati; ma per avere italiani, per elevarsi nel consenso dei popoli e dire: sono anche io!
La rivoluzione aveva levata un’altra volta la grande quistione di Amleto, essere, o non essere affatto. Le utopie imitative, le nostre ire meschine e la ripetizione di diritti più meschini ancora, le tradizioni del medio evo, le inquiete gelosie municipali hanno spalleggiata l’efficacia dell’Austria e risoluto il problema. Chi ardisce negare che l’Italia non sia ancora un’espressione geografica? La lezione crudele ci giovi almeno in qualche cosa. — Le sventure dei siciliani non trovarono a Napoli simpatia in alcuno. I realisti avevan veduta nella loro rivolta una violazione di proprietà: i costituzionali una gara dinastica: i radicali un attentato alla sovranità italiana: tutti ne prevedevano l’esito con proporzioni più o meno piccole, quantunque niuno intravedesse la meschinità con cui la lotta fu terminata. L’ostinazione dei siciliani fu trovata inconseguente ed intempestiva. Inconseguente, perchè essi con la loro fedeltà avevano conservata la sovranità della casa di Borbone, l’avevano ristorata dei loro danari, e per due volte rimandata su Napoli come un flagello di Dio, come la peste: intempestiva, perchè era quello invece il momento di richiamare alla ragione i napolitani, che perfidamente sviavano, ed agir di concerto o a sgabellarsi affatto del principato, o annullarne presso che intera la forza. Se noi fossimo stati uniti, concordi, rassembrati sotto una bandiera, spinti da un principio, re Ferdinando non avrebbe macchinata e consumata quella serie senza numero di tradimenti che han perduta l’Italia ed oggi stesso ne rassodano la schiavitù. Se avessimo formato un popolo solo, un popolo compatto di otto milioni, un popolo intero e nel suo vigore di voglie, corroborato dalla scambievole energia come le due scintille che formano il fulmine, l’uno suffulto dall’altro, con la coscienza entrambi della propria forza, chi avrebbe osato stuprare la sovranità di questo popolo, e tentare il bombardamento di Messina ed il saccheggio di Napoli? Adesso il sacrifizio è consumato, ed è iniquo e puerile rimbeccarci a vicenda le comuni sventure: ma il passato ci faccia dotti dell’avvenire. Un vecchio scandinavo, un guerriero, dimandato un giorno se credesse piuttosto in Odin che in Cristo, nell’Edda piuttosto che nel Vangelo, rispose: io credo in me. Io credo in me! deve essere il motto di ordine della nuova rivoluzione d’Italia. Io credo in me!