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a travagliare, le suggestioni occulte a calunniare; ed allora sino il principio vitale della indipendenza e dell’unità d’Italia fu distornato, fu affiacchito, fu creduto chimerico ed impossibile. E questa è la sventura suprema che Italia non perdonerà giammai a quel ristucchevole sofista di Gioberti. Ma il primo attentato, bisogna dirlo alto, fu del Comitato siciliano. Esso non ha certo ben meritato dell’Italia. Era assai miserabil cosa caldeggiare ancora affetti municipali, ed aprire il varco ad odii funesti dall’accorgimento dei padroni infiltrati nei servi per domarli ed impedirne la coalizione. Era assai miserabil cosa bocconcellare in parti più distinte ancora le provincie d’Italia, quando era mestieri lavorare a fonderle in una. L’Italia non faceva un’altra rivoluzione per avere dei napolitani, dei siciliani, dei lombardi, dei romani più o meno liberi, più o meno rapprossimati; ma per avere italiani, per elevarsi nel consenso dei popoli e dire: sono anche io!

La rivoluzione aveva levata un’altra volta la grande quistione di Amleto, essere, o non essere affatto. Le utopie imitative, le nostre ire meschine e la ripetizione di diritti più meschini ancora, le tradizioni del medio evo, le inquiete gelosie municipali hanno spalleggiata l’efficacia dell’Austria e risoluto il problema. Chi ardisce negare che l’Italia non sia ancora un’espressione geografica? La lezione crudele ci giovi almeno in qualche cosa. Le sventure dei siciliani non trovarono a Napoli simpatia in alcuno. I realisti avevan veduta nella loro rivolta una violazione di proprietà: i costituzionali una gara dinastica: i radicali un attentato alla sovranità italiana: tutti ne prevedevano