La rivoluzione di Napoli nel 1848/21. Inerzia e nullità del governo

21. Inerzia e nullità del governo

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20. Affari di Sicilia 22. Il popolo assume l'iniziativa

[p. 74 modifica]21. Pubblicatosi lo statuto, re Ferdinando e gli alti funzionarii lo andarono a giurare nella Chiesa di San Francesco di Paola. I soldati lo giurarono anch’essi. Ma mentre gli si faceva sacramento, si progettava lo spergiuro e si cospirava. La vecchia macchina governativa era stata smantellata, ma non si badava niente affatto ad organizzare la nuova. Il reggimento della monarchia assoluta si aboliva con l’atto del 29 gennaio: il reggimento costituzionale, dopo un mese di esistenza, non s’incarnava ancora. In effetti nè di guardia nazionale, nè di legge elettorale, nè di convocazione del parlamento, nè della sformazione del corpo esoso della gendarmeria, nè della composizione dei pubblici uffizii parlavasi ancora. La forma del governo insomma era l’anarchia. I partiti lavoravano, ma in sensi diversi: gli agenti del governo e dell’Austria lavoravano anche essi, ma per avvelenare i principii del popolo ed alienarlo dalla libertà. L’ansietà quindi, l’incertezza e la collera ambasciavano il paese. La stampa, di accordo nel demolire, non sapeva proporre che inezie e sconcordanze. Essa non traduceva il volere della nazione, non indicava una strada all’opinione pubblica. Un pensiero energico e pregno di avvenire giammai concepivasi da essa, non istruiva il popolo, che pur tanto ne abbisognava, non conciliava gl’interessi di alcun partito, non illuminava nulla infine, null’altro che le piaghe ignominose del passato e le metteva in evidenza. Era scapigliata, ma non liberale nè riformatrice: rimuginava nella vita e nel cuore di qualche individuo, ma obliava la politica e non sorvegliava il governo. Avea le idee di un fanciullo, le passioni di un adulto. I clubi, espressioni individuali e non di un partito, non [p. 75 modifica]avevano nè radice nè simpatia esteriore: non significavano nulla, non un’idea politica, non un centro di azione, non un mezzo di forza, nemmeno un principio d’iniziativa, nemmeno un colore o una forma. Ciascuno agiva per sè e per una ristretta sfera, e plaudiva ad ambizioni immerite e sterili. Il paese quindi abbandonato a sè, senza leggi e senza direzione, andava, senza saper dove, commovendosi ad ogni si dice, palpitando ad ogni novella. Il governo che di proposito deliberato tradiva la nazione, la lasciava in sua balia, sperando in nuove commozioni o nel disgusto che inevitabilmente doveva produrre quello stato di sfacelo in un popolo assuefatto alla più dura organizzazione governativa. Ed invano gli spiriti chiaroveggenti gridavano: "Animate, per dio, questo corpo che si scioglie in rovina, ovvero abbandonate il governale dello Stato e penseremo noi a ravvivarlo". Oibò! il re inviava le commissioni a Bozzelli e colleghi; e questi affannati, offuscati, imbrogliati, si dibattevano a crear nuovi impieghi per provvedere agli appetiti ed alle esigenze di quei miserabili che si asserivano liberali per mangiarsi il tesoro dello Stato; ed adducevano che le faccende di Sicilia occupavano intero il loro tempo. Si sperò nel ministero ricomposto del 1° marzo: ma l’anima essendone la stessa, Francesco Paolo Bozzelli, l’inerzia medesima e la medesima nullità si sperimentò. E forse si sarebbe ricorso a non so quali estremi per uscire da quella stalla di Augia, se le novelle di Francia non arrivavano opportune. La rivoluzione di Francia fu come un raggio di luce che rischiarò tutte le menti. La rivoluzione del 1848 non aveva avuta ancora la sua consacrazione: non aveva ancora alcun significato. La repub[p. 76 modifica]blica francese colpì il fantasma che si celava nelle nuvole e disse il fiat lux. Tutti allora compresero che i radicali, col loro panteismo politico, non domandavano mica utopie, e che la repubblica era la idea e lo scopo della rivoluzione novella, la quale reintegrava la società espropriata nel possesso di tutte le attribuzioni del potere. I fatti di Francia sbigottirono Ferdinando e l’aulico consiglio. Essi avevan ceduto alle richieste della nazione, ma speravano un giorno o l’altro tutto ritoglierle, facendole pagar caro, come successe, la petulanza del domandare. Speravano nell’accorgimento del re Volpe e del suo abile e tristo ministro: speravano nel fiero e satannico despota di Austria. Ma quando l’un dopo l’altro li seppero gittati nel fango in un solo soffio dell’ira del popolo; quando videro che la forza fittizia del despotismo si smascherava ed appariva in tutta la lurida sua decrepitezza; allora atterriti, offuscati si affrettarono ad obbedire ai voleri del popolo, e da padroni traditori divennero servi vigliacchi. Avrebbero voluto contentare, obbedire a tutti in un istante medesimo. Perciò si cadde nell’eccesso opposto. E la plebeità e la fiacchezza in un governo sono due mali non meno pericolosi dell’arroganza e della tirannia. Intanto la legge sulla guardia nazionale fu tradotta e pubblicata: e quindi a poco tradotta e pubblicata anche quella per le elezioni. Queste leggi scontentarono tutti. Il principio aristocratico del censo vi era mantenuto: l’aristocrazia vera, l’aristocrazia dell’intelletto dimenticata. Non eran bastati gli sperimenti della Francia: il famoso pubblicista napolitano, che nulla sapeva concepire da sè, le sottometteva anche alla pruova d’un popolo italiano. Le leggi organiche [p. 77 modifica]provvisorie si accordavano con la legge fondamentale. Gl’inconvenienti, o per meglio dire l’insufficienza se ne conobbe assai presto. La guardia nazionale fu poco numerosa: gli uffiziali, che dal maggiore in sopra sceglievansi dal re, uomini parte avversi, parte traditori, tutti nulli — e la catastrofe del 15 maggio fatalmente lo dimostrò. Ciò nondimeno una vita novella si manifestò nel popolo. La guardia nazionale, che esprimeva la sua forza, era la prima incarnazione delle conquiste della rivoluzione. Le notizie della sollevazione di Milano e di Vienna vennero a crescere il suo ardire. Il governo perdette allora gli ultimi avanzi di vita, e, caduto nell’atonia, cominciò ad agonizzare. — La parte più ebbra del popolo prese le redini dello Stato: e ogni villano addivenne Marcello.