<dc:title> La rivoluzione di Napoli nel 1848 </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Ferdinando Petruccelli della Gattina</dc:creator><dc:date>1850</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Petruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=La_rivoluzione_di_Napoli_nel_1848/16._Esilio_di_Delcarretto_e_di_Cocle&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20240419144414</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=La_rivoluzione_di_Napoli_nel_1848/16._Esilio_di_Delcarretto_e_di_Cocle&oldid=-20240419144414
La rivoluzione di Napoli nel 1848 - 16. Esilio di Delcarretto e di Cocle Ferdinando Petruccelli della GattinaPetruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu
[p. 56modifica]16. Questi si era ritirato in sua casa con l’anima oppressa dal dubbio e dilacerato dalla rabbia. Il re non gli aveva rivolta neppur una parola, neppure uno sguardo: aveva ascoltato freddamente le disperate misure che egli divisava di prendere. Si credette perduto: solo non sapeva fino a quali estremi la sua disgrazia sarebbesi spinta. Egli non vedeva oramai che due strade di salute; o vendere il re al popolo, distruggendolo, e mettendo a compimento i suoi delirii di seguir le tracce di Bonaparte, facendosi anch’egli dichiarar primo console, ovvero con le crudeltà sue consuete e con i mezzi più disperati, gettarsi sul partito liberale per percuoterlo ed annullarlo, facendo valere di guarentigia le tirannie nuove alla fedeltà attiepidita. Ed all’uopo aveva già mandato a chiamare i suoi sgherri senza anima, Morbillo e Campobasso; già preparava per la gendarmeria gli ordini più arrischiati e furibondi, onde dare addosso a tutta una città. Il messo del re lo rassicurò. Non pertanto fece prima scomparire buon numero di carte, altre ne mise in ordine, poi si rese alla corte: arrivato alle sale domandò del re. Gli fu risposto, sedere in consiglio. Si avanzò per entrare; ma il ciamberlano glielo impedì. Avvampando di sdegno stese la mano sull’uomo che gl’impediva di varcar la soglia, protestando con voce grossa ed irata, che come ministro aveva diritto di entrare e che niuno poteva [p. 57modifica]tenergli il passo. Allora il general Filangieri uscì e con sorriso freddo ed ironico gli disse: voi non siete più ministro. Esterrefatto, ma incredulo ancora, Delcarretto osò profferire altere parole: ma, al piglio severo e fermo del generale, quella paura che altrui aveva per sì lungo tempo ispirata penetrò nel suo cuore; e cangiando di un tratto linguaggio, implorò per favore vedere ancora una volta il suo adorato sovrano, avendo gravi cose a comunicargli. Filangieri gustò un pezzo, sorbì, diciam così, a sorsi l’umiliazione di quell’uomo, un istante prima sì superbo e sì terribile, poi con un ghigno mefistofelico soggiunse: in questo momento il commissario Silvestri mette i suggelli alle vostre carte, a casa vostra: a voi è stata accordata un’ora di tempo per uscire dal regno; profittatene e scrivete alla vostra famiglia. Nuove scuse, nuove preghiere, nuovi avvilimenti, nuovi scoppii di sdegno impotente; ma l’ora passata, toccati ducati duemila, ultima paga d’infami servigi renduti ad un principe infame, ultimo prezzo del sangue del Cilento, di Sicilia, di Calabria, accompagnato sino ai confini, uscì dal paese e prese la volta di Francia. Civitavecchia lo respinse: Livorno innalzò sul lido un patibolo annunziandogli aver preparato gli appartamenti se volesse discendere: Genova gli impedì di prender terra per non esser contaminata dalla sua presenza: Marsiglia lo insultò e lo coprì di esecrazione e di fango. Il suo viaggio era stato una gogna in permanenza. Il Caino della civiltà non trovava chi volesse accordargli un asilo. Come sulla faccia del Valentino, il sangue prodigalmente versato macchiava quel sembiante, che i cosmetici femminei, la biacca ed il cinabro da bardassa rendevano ancora più truce. Qualche cosa di [p. 58modifica]ributtante traspariva da quello sguardo canuto il quale indiscretamente rivelava un’anima cadavere. Egli aveva a sopportare un peso di delitti più grave di quello che una natura umana può sopportare: aveva a render conto alla civiltà ed all’umanità delle scelleratezze sue e di quelle del suo padrone. E sì che il suo padrone, re Ferdinando, può vantarsi che innanzi a lui giammai sopra una testa di uomo si erano cumulate più ingiurie e più maledizioni! Montpellier infine accolse questo essere immondo che vi arrivò sott’altro nome. E così politicamente terminava una vita di delitti; tale degno compenso ottenevano trenta anni di opere la cui atrocità ed arbitrio non ebbero confine. Aveva governato come Verre, attorniato da scherani, da concussionarii, da adulatori e da carnefici; era cacciato come un servitore infedele. E quest’uomo ha osato conservarsi in vita ed è ritornato a respirare l’aura di Napoli! Miserabile! — Il consiglio familiare del re fu protratto fino alle ore più tarde della notte. — All’indomani un altro uomo si presentava alla corte, ma neppur esso veniva ricevuto. Quest’uomo era l’arcivescovo di Patrasso, Celestino Cocle, confessore di re Ferdinando. Una lettera di lui a Delcarretto era stata presentata al re. Questi due ribaldi si intendevano a maraviglia per condurre il carro dello Stato, e avviluppare il tristo principe che loro si abbandonava. Ladro, abietto, vigliacco, compendiava in sè quanto vi ha di più brutto in una creatura umana decaduta: era frate e servitore ad un tempo. La sua passione era l’orgia la più triviale; era l’oro; era vendere in dettaglio il suo penitente, come Gizzi vendeva i miracoli; era vederselo umiliato ai piedi, [p. 59modifica]scandagliarne la bassezza, la picciolezza, la fatuità, e come Satana riderne; era infiltrargli nello spirito la più grossolana e superstiziosa bacchettoneria di una pinzochera; era fargli rendere miseri gli uomini per glorificare Iddio. Questo ribaldo che tanta parte aveva rappresentata nelle sventure di quel disgraziato paese, spaventato si nascose e poscia si salvò a Castellamare. Ma indi a poco, scovertasi la sua tana, perseguitato dalla paura, inviso ai liberali ed al Borbone, dopo aver pagate grosse somme al direttore della polizia, che andandogli a significare di allontanarsi dal regno, ebbe interesse di atterrirlo di strana maniera, dopo avere consegnate le lettere scrittegli dal suo santo penitente, e che dal direttore Tofano erano poi a costui vendute, travestito, rinnegando il suo nome, partì per Malta nel mezzo della notte. Più tardi egli ancora ritornava. Egli ancora, come il Santangelo, il Ferri ed altri ladroni famosi, veniva con insigne cinismo a mangiarsi le sostanze del povero sfrontatamente rubate, e veniva a sberteggiare su i cancelli delle prigioni coloro, lo sdegno dei quali aveva dovuto fuggire. E re Ferdinando li perdonava tutti perchè in faccia a lui essi non erano colpevoli, perchè egli stesso aveva bisogno di perdono da coloro che tutta la sua nefanda storia conoscevano, perchè aveva bisogno di soffocare in essi una voce che poteva rimbombare per tutta Europa.