<dc:title> La rivoluzione di Napoli nel 1848 </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Ferdinando Petruccelli della Gattina</dc:creator><dc:date>1850</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Petruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=La_rivoluzione_di_Napoli_nel_1848/17._Il_29_gennaio&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20240419144429</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=La_rivoluzione_di_Napoli_nel_1848/17._Il_29_gennaio&oldid=-20240419144429
La rivoluzione di Napoli nel 1848 - 17. Il 29 gennaio Ferdinando Petruccelli della GattinaPetruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu
[p. 59modifica]17. Il giorno 28 gennaio fu un giorno di ansietà indicibile per tutti i partiti e per l’intera città. È vero che una commissione recatasi dal re era stata ben ricevuta, e ne aveva raccolte parole graziose e promesse. Ma, chi non conosce come i re osservino la fede data, e sopra tutto i Borboni? Alla Borsa il Piccolelli, [p. 60modifica]venendo dalla reggia, aveva fatti correre rumori vaghi di cangiamento di ministero, di amnistia, e di costituzione, cui sembrava dar consistenza la novella oramai pubblica del bando del Delcarretto e di Cocle. Però non sapendosi nulla di positivo, eccetto il consiglio intimo in seduta permanente, non volendosi abbandonare a lusinghe tante volte deluse, i giovani stabilirono che il domani, 29 gennaio, avrebbero cominciata la rivoluzione davvero col tentare la fortuna delle armi. Quindi un’attività novella, un’ansia indicibile, una fiducia di esito che sebbene non divisa dall’inutile Comitato, non esaltava meno il coraggio di coloro i quali si votavano alla libertà della patria. Bisognava finirla con le inezie e col temporeggiare vituperevoli. La notte fu spesa dunque in preparamenti. Ma all’alba del domani, 29 gennaio, le cose avevano cangiato di aspetto. Su tutti i canti della città leggevasi un decreto che consentiva la Costituzione, cedendo ai voleri del popolo; un altro chiamava al potere il partito liberale e l’istesso Bozzelli. — Io non mi proverò a descrivere la gioia e le feste che successero: non saggerò neppure darne un’idea. Più che tripudio era delirio; più che feste erano saturnali. Quella plebe stessa che era sembrata sì indifferente e che si era temuta, quella plebe, quasi uscita da letargo alla parola di libertà e di fratellanza, si abbandonò a tale espansione di animo che commoveva. Essa subìva l’assalto di un’idea nuova: essa si trovava di un tratto trasportata in un aere, in cui non si sarebbe creduto che avesse potuto mai respirare. Il suo stesso carattere provava un cangiamento notevole. Un giorno prima sì burbera, sì rimessa e glaciale; un giorno dopo sì devota, sì devota [p. 61modifica]ed espansiva. — Iteratamente chiamato da applausi fragorosi, re Ferdinando trepidava perfino farsi ai balconi. Rassicurato però dal generale Statella, il quale gli disse non aver altro pericolo a correre che veder tolti i cavalli dalla carrozza per esser menato in trionfo, montò a cavallo, seguito da due sole guardie del corpo, ed uscì. Era pallido come un cadavere. La gioia universale gli faceva male; gli disquilibrava quasi la ragione. La clemenza del popolo l’oltraggiava; quel tripudio era un insulto: era un abuso di vittoria da parte del popolo: era un rimprovero ed un’accusa di tutto il suo governo passato: erano diciotto anni di protesta cumulati. Quella gioia non festeggiava la Costituzione conquistata, ma la forza che il popolo ritrovava, la sovranità che metteva in atto, il trionfo della sua volontà: il giudizio di diciotto anni di regno, vera usurpazione. I capelli del re, un mese innanzi, una settimana prima, neri, erano brizzolati di bianco. Il suo lento sorriso aveva qualche cosa di maniaco, il suo atto cortese qualche sforzo da disperato. In mezzo ad un’ovazione frenetica percorse la città. Ma tornato al castello, un accesso della sua malattia ordinaria, l’epilessia, lo sorprese. La paura, la rabbia, il violento dominio che aveva per molte ore dovuto esercitare sopra di sè, il paragone disperato del passato e del presente, forse le considerazioni dell’avvenire ancor esse, forse una commozione involontaria, forse il rimorso, l’antitesi satannica tra quegli applausi e quei voti sì ingenuamente espressi, tra quelle benedizioni con tanta espansione invocate ed i suoi pensieri più neri della testa di Otello, quella situazione anormale dell’anima sua, insomma, provocò il ritorno del [p. 62modifica]male, che da qualche tempo lo aveva abbandonato. Giustizia di Dio, sarai tu dunque sempre lenta? Il sabato delle tue paghe non verrà dunque mai? Attendiamo. Questo gaudio spropositato non fu minore nelle provincie. Per sei mesi sotto l’incubo di affetti diversi, in preda a mille progetti, nei diversi sensi messe a partito, le provincie subivano il contraccolpo delle passioni di Napoli, come il magnetizzato sente la forza del magnetizzatore. Nazione idrocefala, aveva nella metropoli concentrata tutta la vita. I voti delle provincie erano quelli di Napoli, come quelli di Napoli i suoi polsi febbrili battevano. Però le novelle delle sterili evoluzioni della capitale non giungendo nè precise nè sollecite, un certo che di vago e di disparato era nelle loro idee. Non che l’istinto le tradisse, ma l’abitudine e l’esperienza sventurata di altri tempi le traviavano. Temevano una decezione di più, una ricrudescenza nei guai della patria. Non pertanto gli uomini di animo nobile si rannodavano ed approntavano le armi ad ogni evento. Fattasi più distinta la situazione di Napoli, dopo le novelle di Sicilia e le manifestazioni, le determinazioni delle provincie assunsero più vigore di colorito. In alcune si giunse fino a modellare un equivoco di guardia nazionale, un club, un comitato di provvidenza. Il malessere cominciava a sgomberare, si fidavano gli uni negli altri, si comunicavano le speranze e le voci che circolavano. Il paesano quando giungeva a saperne un lecco, tripudiava: le donne fecondavano di conforti ogni nobile voto, attaccavano sul petto dei fratelli e degli amanti la benedetta coccarda d’Italia. In una parola, sentiva ognuno approssimarsi ad un atto solenne della sua [p. 63modifica]vita: malgrado le vigilanze raddoppiate della polizia ed il terrorismo, l’idea immortale della libertà slanciavasi all’aperto dei cieli, come una pianta chiusa nel buio volge i suoi rami verso lo spiracolo di luce che solo le si comparte. Eccessivo, pazzo fu anche nelle provincie il tripudio alla nuova della conquistata costituzione: per tutte le guise fu celebrata. Eppure si diceva, si dice ancora, l’Italia non essere matura alle istituzioni di libertà: Oh! i grandi Isaia dei destini dei popoli!