<dc:title> La rivoluzione di Napoli nel 1848 </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Ferdinando Petruccelli della Gattina</dc:creator><dc:date>1850</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Petruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=La_rivoluzione_di_Napoli_nel_1848/14._Il_comitato_e_le_sperienze_rivoluzionarie&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20240419144345</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=La_rivoluzione_di_Napoli_nel_1848/14._Il_comitato_e_le_sperienze_rivoluzionarie&oldid=-20240419144345
La rivoluzione di Napoli nel 1848 - 14. Il comitato e le sperienze rivoluzionarie Ferdinando Petruccelli della GattinaPetruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu
[p. 47modifica]14. Si era convenuto col Comitato di Palermo che il 12 gennaio 1848, giorno anniversario dei natali di Ferdinando, la rivoluzione sarebbe scoppiata nelle due capitali. Dovevasi disarmar la milizia, e discioglierla se ostile al popolo: creare una guardia nazionale e confidarle i castelli che dominano su i punti più culminanti della città: proclamar la Costituzione: tollerare le opinioni: rispettare le proprietà e neppure una goccia di sangue versare. Queste temperate misure avevano in sè una ragione di dover attirare la simpatia di tutti e l’universale approvazione. Non pertanto [p. 48modifica]il Comitato di Napoli volle farne un saggio, come gli aerostati, prima di confidarsi alla mercede dei venti, con dei palloncini di prova ne scandagliano la direzione e la forza. Questo Comitato composto da uomini che non avevano nè fede in sè, nè l’intera confidenza in altrui, più ambiziosi che abili, più malcontenti che rivoluzionarii, di una disperata povertà di risorse e d’idee, si avvolgeva nel mistero più fitto per paura, non era giammai di accordo in una misura, non sapeva mai nulla proporre di nobile e di forte, e per tattica o consuetudine contromandava all’indomani le decisioni del giorno innanzi. Nato nell’ombre, marciava nel buio. Non prevedeva giammai l’effetto di una determinazione, non tirava giammai le conseguenze giuste di un fatto, non conosceva con chi avesse a fare, non confidava che nella fertilità degli eventi impreveduti e negli aiuti della fatalità. La rivoluzione progrediva perchè l’era un’idea compiuta, perchè l’istinto infallibile delle masse la spingeva avanti sicura. Alcune sere dopo il 14 dicembre una nuova dimostrazione si concertò. La strada di Toledo rimbombò novellamente al grido di viva Pio IX e viva l’Italia. La polizia scortata dai gendarmi accorse di nuovo. Qualche gendarme fu morto, alcuni scherani feriti: ma un istante appresso vincitori e vinti, compresi da mutua paura, sgomberarono il campo di battaglia. La seconda prova era tornata favorevole ai liberali. La plebe non si era mossa: ma con compiacenza non dissimulata aveva veduta la sconfitta dello sgherro di polizia, suo tormento ostinato, nemico implacabile di ogni sua gioia e di ogni sua libertà. Però pel Comitato nè anche questo bastava. Il 12 gennaio passò, e la rivoluzione a Na[p. 49modifica]poli non successe. Palermo invece mantenne il patto; ed il mattino del 12 il grido di guerra contro il Borbone suonò. Non essendo mio disegno scrivere la storia della rivolta al di là del Faro, non ispecificherò i particolari di quel giorno di gloria. La rivoluzione fu intera: fu formulata senza ambiguità. Le novelle bentosto ne giunsero a Napoli per colmare noi di gioia, la corte di lutto. Re Ferdinando, educato in tutta l’opulenza del dispotismo e viziato dalla più codarda adulazione, come una pantera ferita si abbandonò ad ogni delirio di furore. Furono spediti navi e soldati: il suo proprio fratello fu inviato a Palermo per ispegnere nel sangue l’incendio, e mercar tutto per oro e per nastri. Però, qualche giorno di poi, il conte di Aquila tornava senza aver potuto nulla ottenere, e dichiarava che, almeno pel momento, ogni cosa era perduta. E quasi comentario alle asserzioni del principe, i soldati della guarnigione in gran parte feriti, tutti nudi, disarmati, affranti, erano ricondotti a Napoli sui vapori da guerra. Era quella l’ora opportuna di battere a breccia lo screpolato baluardo del dispotismo borbonico, e purgarne la sacra terra d’Italia sì lungamente infetta. Ma l’inetto Comitato non si riscosse, e propose invece nuovi sperimenti dello spirito pubblico. Il giorno 25 gennaio 1848 si fece mettere in iscena dai popolani la corsa preparata. Alle undici del mattino, da parecchi rioni di Napoli, si scagliò precipitosamente fuggendo un’onda di popolani. Essi non profferivano sillaba, non davano neppure ad intendere chi li inseguisse, perchè corressero, di che vi fosse a temere. Volavano furiosi, ed agglomerando nel passaggio altra gente, che inscia di tutto si salvava in sensi di[p. 50modifica]versi, calpestando insieme donne e fanciulli, rovesciando chiunque era ad essi d’intoppo, mettendo in fuga vetture e pedoni a loro volta, obbligarono a chiudersi in un istante tutte le porte de’ palagi, sparsero la costernazione e lo spavento fra tutti i cittadini. Chi diceva che i briganti di Calabria erano alle porte: chi assicurava che i siciliani vittoriosi erano a vista in sulle Bocche di Capri: chi sussurrava di austriaci e di russi. La polizia era fuori del secolo. I soldati tentennavano e non sapevano contro chi sfogare la loro irritazione, se contro il governo che li teneva sul piede di guerra notte e giorno, o contro il popolo cagione di tali misure. I proprietarii cumulavano oro per partire, se d’uopo ne fosse stato. I preti parlavano di giustizia di Dio, di vendetta di Dio irritato da un papa ateo e liberale. I fondi pubblici bassavano: le cedole apportavansi alle Banche per esser pagate: il tesoro si spossava, e non vivea che di carta e di credito oramai difficile. La fame intanto cresceva: il lavoro mancava: i funzionarii pubblici incerti sull’avvenire bilanciavano e si astenevano di agire: il malcontento, il malessere, l’ansietà, lo sbigottimento era universale. Il governo, ossia il re, si stancava in atti insensati ora di ferocia, ora di viltà. I Consigli di Stato fluttuavano anch’essi e si succedevano senza nulla risolvere, perchè alcuno non ardiva pigliar quivi la parola, e chiarir francamente la situazione, per proporre temperamenti generosi e liberi. Il paese in una parola, in tutte le sue regioni, si sentiva trascinare nel buio, si sentiva dissolvere. Quelle manovre senza senso del Comitato, di niente altro feconde che di nuovi arresti e di maggiore scoraggiamento e [p. 51modifica]terrore, quelle commedie senza significazione completavano l’oscillazione, complicavano l’oscurità generale. Delcarretto esso stesso cominciava a perder la bussola e si domandava se egli non soggiacesse ad una mistificazione ridicola. Egli aveva perduto ogni prestigio: scopo dell’esecrazione del popolo, era ornai in sospetto ed in uggia anche al governo. La sua abilità, la sua forza erano un problema per tutti. Il popolo aveva veduto che la polizia, accozzaglia di codardi e di abbietti, potevasi facilmente calpestare: il re avea scoperto che, per diciotto anni, lo avevano ingannato sul suo potere, e sulla fede e la venerazione che il popolo portavagli, sulla presunzione della polizia di tutto sapere, e l’attitudine di tutto spegnere in un atto di volere e di collera. Delcarretto cominciava a dubitare di sè, e qualche sospetto gli nasceva sulla probabilità di riuscire nella parte, che in un bel sogno aveva determinato rappresentare. Metteva perciò della lentezza in ogni ordine, sconfidava, ed addoppiava di brutalità a misura che perdeva il potere per farsi credere forte sempre ed inviolato. Vani colpi di attitudine teatrale! il suo tempo era passato. I disinganni si succedevano.