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pelare mai a quelle povere macchine nè di riforme nè di libertà nè di rivoluzione. Nè coloro si brigavano sapere di vantaggio. Bastava ad essi bere un gotto in compagnia dei signori e toccare alcuni quattrini. Il loro carattere fatalista non n’era solleticato più in là. Infatti che importava loro sapere la parola della sciarada quando erano sicuri che quella parola non avrebbe cangiato le loro miserabili condizioni, quando sapevano che non era quello lo scongiuro che avrebbe diminuito di una bricciola nè le ore del lavoro, nè il prezzo del pane, nè quello del vino, nè l’inclemenza della stagione invernale e neppure di un mese le loro pene del purgatorio? Considerarono la manovra desiderata come un capriccio di gente ricca passabilmente ricompensato, e dormirono tranquilli. Intanto in questo consiglio infedele del Bozzelli deve trovarsi la prima radice della sconfitta del 15 maggio, completata dal popolo, apatico in parte, in parte ostile. Esso non ne comprendeva nulla; le nostre domande gli erano come un mistero. Però i popolani tennero la parola e con precisione maravigliosa la compirono.

14. Si era convenuto col Comitato di Palermo che il 12 gennaio 1848, giorno anniversario dei natali di Ferdinando, la rivoluzione sarebbe scoppiata nelle due capitali. Dovevasi disarmar la milizia, e discioglierla se ostile al popolo: creare una guardia nazionale e confidarle i castelli che dominano su i punti più culminanti della città: proclamar la Costituzione: tollerare le opinioni: rispettare le proprietà e neppure una goccia di sangue versare. Queste temperate misure avevano in sè una ragione di dover attirare la simpatia di tutti e l’universale approvazione. Non pertanto