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il Comitato di Napoli volle farne un saggio, come gli aerostati, prima di confidarsi alla mercede dei venti, con dei palloncini di prova ne scandagliano la direzione e la forza. Questo Comitato composto da uomini che non avevano né fede in sé, né l’intera confidenza in altrui, più ambiziosi che abili, più malcontenti che rivoluzionarii, di una disperata povertà di risorse e d’idee, si avvolgeva nel mistero più fitto per paura, non era giammai di accordo in una misura, non sapeva mai nulla proporre di nobile e di forte, e per tattica o consuetudine contromandava all’indomani le decisioni del giorno innanzi. Nato nell’ombre, marciava nel buio. Non prevedeva giammai l’effetto di una determinazione, non tirava giammai le conseguenze giuste di un fatto, non conosceva con chi avesse a fare, non confidava che nella fertilità degli eventi impreveduti e negli aiuti della fatalità. La rivoluzione progrediva perché l’era un’idea compiuta, perché l’istinto infallibile delle masse la spingeva avanti sicura. Alcune sere dopo il 14 dicembre una nuova dimostrazione si concertò. La strada di Toledo rimbombò novellamente al grido di viva Pio IX e viva l’Italia. La polizia scortata dai gendarmi accorse di nuovo. Qualche gendarme fu morto, alcuni scherani feriti: ma un istante appresso vincitori e vinti, compresi da mutua paura, sgomberarono il campo di battaglia. La seconda prova era tornata favorevole ai liberali. La plebe non si era mossa: ma con compiacenza non dissimulata aveva veduta la sconfitta dello sgherro di polizia, suo tormento ostinato, nemico implacabile di ogni sua gioia e di ogni sua libertà. Però pel Comitato né anche questo bastava. Il 12 gennaio passò, e la rivoluzione a Napoli