La rivoluzione di Napoli nel 1848/13. Forieri della rivoluzione
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13. La sera del 14 dicembre 1847 era una di quelle notti tiepide e stellate di Napoli che tanta fascinazione esercitano sullo spirito, e che involontariamente invitano alla malinconia ed alla meditazione dei destini dell’uomo e del suo avvenire. Quando lo sguardo si perde nel profondo de’ cieli e sembra sollevarsi fino a Dio; quando il velo trasparente della notte ingrandisce i confini dello spazio e slancia l’anima avida in regioni incognite; quando un mare azzurro e tranquillo si compiace moltiplicare i fuochi del cielo e con le sue ondulazioni imprimer loro una vita soave, un movimento arcano; quando un vulcano è là a due passi per rischiarare di una luce fantastica la variopinta città che stende, come Ero, le sue braccia per istringersi al seno le onde innamorate le quali le portano i profumi degli aranceti di Sorrento ed i misteri della luce della grotta azzurra di Capri; quando infine si contempla tutta quella scena sotto il prestigio dei colori della notte, l’anima si apre alle commozioni, il pensiero diventa un’ardente poesia, l’entusiasmo l’inebria. Allora si sente il bisogno di sviluppare le facoltà dello spirito in tutta la libera e vergine potenza che loro venne data da Dio: allora l’istinto sfugge e scuote le miserabili catene che una società canuta gli impose. La fierezza dell’individualità umana messa faccia a faccia con l’immensità della natura si ribella e protesta. — La gioventù napolitana esasperata da lunga e stupida tirannia di preti e di birri, martoriata da ogni specie di umiliazioni e soprusi, anelava, accelerava il momento dell’insurrezione, malgrado tutti gl’intoppi creati dal Comitato. Le nuove idee fermentavano nel suo spirito ed a traverso tutto si rivelavano. Essa ne sentiva il dominio, ne subiva la dittatura. A Napoli vi era il costume che, un’ora dopo il tramonto, nella piazza della Reggia le bande militari suonassero due o tre pezzi di musica. Gli studenti vi accorrevano perchè quella specie di spettacolo gratuito li allettava, e soddisfaceva al bisogno di armonia che sembra indispensabile all’organizzazione italiana. Quella sera si suonava un’aria marziale del maestro Battista. Quegli accordi maschi agirono da provocatori sopra animi disposti e commossi da irritazione interiore e dall’incanto di una notte sì voluttuosa ed eloquente. Trascinati dall’istinto, senza riflettere, senza titubare, unanimamente domandarono che quelle note fossero ripetute, e strepitosi applausi si fecero udire. Alla domanda inusitata si oppose il rifiuto, e gli astanti fischiarono; immediatamente i soldati di guardia accorsero, la polizia vi si pose di mezzo; qualche colpo fu dato, qualcheduno arrestato. Ma la massa inebriata, incollerita, replicatamente gridò abbasso la Polizia; ed al grido di viva Pio IX, stretta in falange compatta, si fece largo spingendo da lato birri e soldati, e trionfante, ripetendo sempre le stesse grida, percorse la strada di Toledo.
La paura degli uni, la gioia degli altri, lo stupore di tutti attirò la folla: in un attimo i balconi della città si ricoprivano di gente. E quei giovani avanzavano, avanzavano sempre, allegri come conquistatori, commossi come attori. Così eccitati da passione e da entusiasmo giunsero alla piazza della Carità. La voce della commozione era corsa, si era divulgata da per tutto. La polizia che avea toccato un primo rovescio, messa in puntiglio ed in orgasmo, si raccolse in grossa mano, si mischiò a gendarmi, si schierò a squadrone, e si appostò alla bocca della piazza per impedire che la folla procedesse. La loro opposizione non valse nulla. Quella siepe codarda fu sfondata, diciam così, a passo di carica: quel baluardo fu spezzato come un vaso di vetro. Birri e gendarmi brancolavan per terra gittati alla rinfusa. Allora si alzò un novello grido di viva Pio IX, viva l’Italia, e come per incanto la piazza fu sgomberata. Quando la masnada del governo, atterrita dallo sperpero e dall’ardire, si guardò intorno per comprendere infine di che si trattasse, e con chi avesse a fare, e qual genere di guerra combattesse, non vide più alcuno. Le finestre, le botteghe erano chiuse, la circolazione della gente sospesa. La solitudine ed il silenzio succedevano al baccano. Saputasi la novella alla corte, immediatamente il Ministro della Polizia vi fu chiamato. Furioso, sconcertato, percorrendo a lunghi passi la camera, il re accolse il ministro con un exabrupto ed un inarcar di ciglia degno del Giove di Omero, dirigendogli severi rimproveri. Delcarretto, offeso nell’orgoglio, balbutì qualche giustificazione e promise che mai più quegl’impreveduti baccani si sarebbero rinnovellati. La notte si fecero innumerevoli arresti. — Delcarretto doveva fingere tutto ignorare. Le vittime furono gittate nelle prigioni orribili della polizia e qualcuna, lui insciente, anche martoriata da quei due assassini senza coscienza, i commissarii Campobasso e Morbillo, dei quali la crudeltà e la rapina si disputavano l’anima. Gli incarcerati dimostrarono il più grande sangue freddo. Non una parola, non un atto, non una debolezza in faccia alle minacce ed alle sofferenze li tradì: il nucleo della cospirazione rimase celato ai funzionarii subalterni della polizia. Il Comitato di Napoli intanto lungi dal pensare a provvedere armi e munizioni, e spendere utilmente le tenui somme che dalle largizioni particolari raccoglieva, si spossava in concerti col Comitato di Palermo, ed in maneggi sterili con i popolani per addestrarli ad una evoluzione teatrale. Questa caricatura di rivoluzione domandata ai popolani consisteva a farli partir fuggendo da varii punti della città, ad un’ora stessa, senza profferir sillaba (fui fui), ed atterrire, non so con qual disegno, i cittadini. Allora le botteghe ed i portoni chiudevansi con fracasso e prestezza, cercava ognuno un rifugio, le donne mettevansi ai balconi, e qui un chiedersi a vicenda con mille differenti e mostruosi commentarii la ragione dell’allarme. Questo futile maneggio fu mercanteggiato dai commissarii del Comitato nelle taverne, fra bicchieri di vino e strette di mano, ma neppure un barlume fu fatto trapelare mai a quelle povere macchine nè di riforme nè di libertà nè di rivoluzione. Nè coloro si brigavano sapere di vantaggio. Bastava ad essi bere un gotto in compagnia dei signori e toccare alcuni quattrini. Il loro carattere fatalista non n’era solleticato più in là. Infatti che importava loro sapere la parola della sciarada quando erano sicuri che quella parola non avrebbe cangiato le loro miserabili condizioni, quando sapevano che non era quello lo scongiuro che avrebbe diminuito di una bricciola nè le ore del lavoro, nè il prezzo del pane, nè quello del vino, nè l’inclemenza della stagione invernale e neppure di un mese le loro pene del purgatorio? Considerarono la manovra desiderata come un capriccio di gente ricca passabilmente ricompensato, e dormirono tranquilli. Intanto in questo consiglio infedele del Bozzelli deve trovarsi la prima radice della sconfitta del 15 maggio, completata dal popolo, apatico in parte, in parte ostile. Esso non ne comprendeva nulla; le nostre domande gli erano come un mistero. Però i popolani tennero la parola e con precisione maravigliosa la compirono.