La palermitana/Libro primo/Canto XXIV

Libro primo - Canto XXIV

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[p. 105 modifica] CANTO XXIV

Querela del benignissimo Dio contro la ingratitudine
della sua sposa Sinagoga.
Sogliono i punitor dell’altrui colpe,
nell’ impartir giustizia, non mai sempre
torcer i corpi e sciór le membra e polpe.
Son varie qualitá, son varie tempre
5d’uomini al mondo; e legge in questo vuole
ch’ai basso e all’alto il tribunal s’attempre.
Pubbliche sono e son private scuole,
ove si covan le mal fatte cose;
qual si, qual no vergogna punger suole.
10Un malfattor patrizio non si pose
per piazze mai far opre di prigione,
ma solitario e in parti al volgo ascose.
Però, quand’è convinto, si ripone
in luogo scelto e lasciavi le braccia,
15o trova l’oro e al fisco si compone.
Ma non cosi del volgo e infame raccia,
che in gli occhi ad Argo quelle cose fanno,
che farle arrosserai Oliatone in faccia.
Questi del popol son ludibrio, e vanno
20putte scopate e schiavi ed infiniti
simil con altrui giuoco e con lor danno.
Nudi con scherni e beffe son puniti,
ché almen vergogna, di vergogna privi,
destan negli altri men sfacciati e triti.
Nel numer dunque d’esti indarno vivi
ecco quella gran donna, che le leggi
sue degne ebbe dal ciel, par che derivi.
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Com’è caduta, lasso! da quei seggi
aurati tanto del suo nobil tempio
30fra mille mali e centomila peggi!
Ben mostra ch’ella nacque allor che l’empio
Cain menti ver’ Dio del frate ucciso;
però qui di miseria è fatto esempio.
Or dunque la vii fante indotto a riso
35il volgo avea, mentr’urta col somero,
cogliendo l’uova in capo, il fango in viso.
Alfin, da quegli abbietta in sul sentiero,
come cosa negletta, stavvi sola,
tutta impastrata il corpo infetto e nero.
40Fra tanto una gran voce d’alto vola,
cui, santa e grave, somm’onor si debbe,
che cominciò: —Che fai, d’odio figliuola?
Mostrato hai bene alfin che un padre t’ebbe
lordo amorreo, la madre tua cetea;
45né d’esser cosi nata mai t’increbbe.
Serva d’Ogo e Magogo e cananea,
odi quanto ti parlo, e ascolta bene,
putta di Zebbe, iniqua Zebusea!
Piacenti un poco quel che a me appartiene
50dal tribunale e me dal soglio porre,
stando per un, cui l’una parte attiene.
Io giá potei di Babilonia tórre
over d’Egitto donna, ed ambedue
valor ebber il mondo a sé sopporre.
55Ma per domar superbia c l’ale sue
spennar, c’ho fatto il mondo e sfarlo penso,
volli te sola e le bassezze tue.
Non ti ricorda, s’hai pur senno e senso,
che io di poca terra ed umil stato
60t’alzai dei gradi al piú elevato e immenso?
Or sia principio alle tue fasce dato!
Quando nascesti, alnten chi ti levasse
dal crudel parto, dimmi, fu trovato?

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chi il tener umbilico ti secasse,
65recasse l’acqua, il sale o almen un straccio,
ov’entro l’abortivo avviluppasse?
Ver è, non vi mancò chi, poco spazio
al parto dopo, ti gittasse nuda
su nuda terra, d’un tal mostro sazio.
70Ed io per lá passando, ahi troppo cruda
parvemi cosa te giacer nel sangue
tuo proprio e non trovarvi chi lo chiuda!
Miro quel corpicei che in terra langue,
calcato da chi passa; lo mi accoglio,
75lo mi ravvivo, ch’era in tutto esangue;
poi nel mio fonte, ove gioir mi soglio,
le macchie del suo sangue lavo e tergo,
di vino il riconforto ed ungo d’oglio;
poi l’introduco al mio piú caro albergo,
80ove cresciuta io t’amo aM’altre sopra,
e di delizie in alto mar t’immergo.
Veste non è d’ogni finezza ed opra,
vistosa si di bisso o di giacinto,
di fini altri color, che non ti copra.
85Taccio le armille al braccio, al collo il cinto
cerchietto d’oro ed alle orecchie i fili,
c’han quinci un pregio, quindi l’altro avvinto.
Taccio gli specchi scriminali e stili,
odorate conserve, acque, profumi,
90giovin servigi e riverenze anili.
Taccio le cortesie, valori e lumi
perspicaci d’ingegno e l’accortezze,
pronte risposte, acconci e bei costumi.
Taccio gli eletti cibi e le carezze
95di suoni, canti, danze e onesti giuochi,
stanze regali e tutte Ior grandezze.
Quante province, regni ed altri luochi
sublimi, a ciò che a quei sormonti in cima,
consunti hanno per me gli edaci fuochi!

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100Cosi il tuo nome, uscito fuor d’un’ima
ed illodata valle, e la beltade,
che in ciel ti diedi, alzai fuor d’ogni stima
Gloriar ben ti potei, che in nulla etade
donna fu mai che ascender nel cubile
105mio sacrosanto avesse libertade.
Ma tanta mia leanza e amor gentile
tu, perché vana sei, pigliasti a nausa,
s’io fossi a tua grandezza cosa vile.
Or di buttarti in occhio facciam pausa,
no Vengo si non a merti tuoi, ma quale
riconoscermi almen per te sta in causa.
Trovandoti giá tutte ornai le scale
aver salito degli onori e fasti,
per anco andar piú suso apristi l’ale.
115Tali pensier non escon, no, che guasti,
mal convenendo meco, vanno e sparsi,
e tornan biechi e impuri, ch’eran casti.
Tosto che i guardi tuoi non furon scarsi
agli amator, che a schifo avesti, ecco
120negli occhi miei gli adúlteri comparsi.
Qual tortorella che al suo verde stecco,
dove s’annida il dolce caro pegno,
ri volando gli arreca il pasto in becco;
ma, giunta, vede il nido, che fu pregno
125del car tesor, star vóto, e la consorte
non piú mai riede al rifiutato regno;
l’ésca le cade dalla bocca, e, forte
stridendo, al secco ramo, al rivo torbo
si riconduce, geme e chiama morte:
130mira sul tronco d’un amaro sorbo
starsi quel crudo vorator de’ figli
con la lor madre a canto, brutto corbo:
tal la mia grazia, mentre ti scompigli
dal nido e dolce parto a noi commune,
135trova il fier guasto de’crudeli artigli.

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Vede Satán rapace, che le cune
ha vote di mia prole, e te la madre,
sua femina giá fatta, tiene impune.
Geme la grazia mia, ch’io, sommo Padre
140di tanti figli, veggoli nel ventre
del negro augel andar a squadre a squadre;
né vi è per tua cagion chi a me piú entre. —