La palermitana/Libro primo/Canto XXV
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CANTO XXV
Fine della querela dell’altissimo Dio contro la Sinagoga.
Elezione della santa Chiesa.
— Io, quel solo ab aetemo, il qual eterno,
mio eterno Figlio e Spirto eterno, imparto
eternalmente ogni contento eterno;
io, quel cui sapienza in un sol parto
5e d’amor pieno il mondo immenso fece,
immenso all’uomo, a Dio pusillo ed arto;
ecco al giudizio altrui m’acchino, invece
d’alcun mortai, che prende a far litigio
contro sua donna, se il divorzio lece,
io Né mi riprenda alcun, che di fastigio
tant’alto, innanti alla sentenza data,
l’abbia giú messa in tanto amar servigio.
Tal cosa non ho io fatto; anzi l’ingrata,
con gli adúlteri suoi da me partita,
15se stessa u’ la vedete si è gittata.
Oh insaziabil lupa, che, invaghita
di questo e quello, a quanti van per via
s’abbietta se medesma e s’è invilita!
Oltra di questo, l’infinita mia
20sostanza d’oro e gemme ed altri beni,
mentr’era in stupro e sotto e intorno avia;
essendo í mechi suoi giú sazi e pieni,
tolse l’oro e l’argento, ch’io le ho dato,
e maseoii ne fece biechi e osceni.
25Essa ciascun di quelli ebbe addobbato
di vesti, ch’eran mie, di piú colori,
e degli odor miei sacri profumato.
Poscia con essi usava, e quegli onori,
che a me si fan sull’are d’agni e buoi,
30essa d’altro lor fe’ che capre e tori.
Ah scelerata donna, che non puoi
peggio esser detta (ché le tigri, ingorde
di sangue, amaron sempre i figli suoi :
e tu, cui coscienza nulla morde,
35la prole d’ambo i sessi e di me sunta
immolar soffri a imagini si lorde),
or vedi a quanta estremitá sei giunta,
putta schernita, e in che ponesti fede!
vedi se stai di precipizio in punta!
40Non ti bastò violate aver le tede
e toro maritai, e in mio disprezzo
del tesor mio far ogni mèco erede ;
non ti bastò che, avendo me da sezzo,
drizzasti altari al volgo che ti stupra,
45e tu gli dai, non piu ricevi, il prezzo:
senza tal atto far, ch’ogni altro supra
di crudeltá, d’infamia e di furore,
né tanto danno mai pili si ricupra.
Come non ti s’aperse il petto, il cuore
50(che petto e cuor! ma smalto, roccia, scoglio!),
allor che fosti d’atto si empio autore?
Come potesti senza gran cordoglio
aprir la gola, trarne sangue e imporre
al fuoco il parto tuo, che amar si soglio?
55Per farne che? sacrarlo a quel che abborre
il zelo mio via piú d’ogni altra offesa
(né pena trovo a tanta colpa sciórre!),
dico l’idolatria, che con gran spesa
ed interesse hai fatta di mia dote,
60da te calcata, non che vilipesa!
Poi, Parche avendo giá dell’oro vote,
le porte tue, che parser un esame,
al gir ed al tornare niun percuote.
Però, fatta carogna e ornai letame,
65per ogni piazza e in publico drizzasti
un lupanar per non perir di fame.
Qui tante oneste voglie e pensier casti
per te, di ruffianismo mastra e prima,
furon corrotti, effeminati e guasti.
70Or giunta infin delle miserie in cima,
guárdati come vai ; cosi ten vade;
ned io di te, né tu di me fai stima!
Ecco che in te dura sentenza cade,
ond’io mi torno al tribunal primiero:
75venga giustizia e vadasi pietade!
Dichiaro a quanto estende il nostro impero:
costei sia, come incesta e parricida,
punita nel mio zel duro e severo.
Non turba e popol sia che in lei non strida,
80e con le pietre in man, coi ferri a lato,
non l’anga ovunque fugge e alfin l’uccida.
Ogni luogo, che albergo a lei sia stato,
senta le fiamme si, che in terra fumi
e in gli occhi all’altre donne il vegga eguato.
85Si laidi e abbominevoli costumi
di vista sian e di memoria tolti :
spegner tal fuoco il mar vi vuole e i fiumi.
Pur ad un cenno tutti, non che molti,
estinguerò come di paglia fuoco
<>o e nell’inferno’i vo’ tener sepolti.
Cotanto è il puzzo lor, che non han loco
né sotto il mar né dell’abisso in fondo;
sol io nell’acqua e sangue li suffóco.
Ma sterile non sia, non infecondo
95il letto mio però, né di mia prole
per la costei cagion sia privo il mondo.
Or altre nozze ristorar si vuole!
Ite, miei servi, a ben spiar chi bella
sia piú dell’altre in tutte le figliuole.
100Nel regno nostro introducete quella,
ove regina, ove sia degna madre,
ove fedel mia donna, e non ancella.
Sarò per lei d’un popol nuovo padre,
che del secondo David sotto insegna
105mi passerá davanti in belle squadre.
Sempre la mia cittá vorrò si tegna
senza notturne guardie e porte chiuse,
e il popol vada a suo piacer e vegna.
Uscir d’Egitto non sia chi ricuse,
no o entrar nel ventre al mar col piede asciutto,
vedervi armate torme andar confuse;
rendermi grazie ch’abbia alfin destrutto
l’amaro Faraon, né mi biastemi
se pel deserto fia per me condutto,
115per me soffrirvi caldi e freddi estremi,
fame, sete, serpenti, morbi e guerre;
né fia che in lui perciò costanza scemi.
Ed io vorrò che indarno mai non erre.
Se amare fian, gli addolcirò le fonti;
120e s’arse fian, gli bagnerò le terre.
Non sdegnerommi, no, che a me sormonti,
a me sulle mie spalle, e porterollo
per fiumi, per campagne e alpestri monti,
lo non m’arretro mai suppor il collo
125al dolce peso del mio popol caro,
che m’abbia di fé solo e amor satollo.
Gli pioverò dal ciel quel pane raro,
donde il mio grande esercito si nutre,
ma i figli di costei ne mormoráro.
130Or via dunque, malvagia, e quelle putre
tue piaghe di mia vista fa’ che toglia
e quel tuo d’ira mia pien vaso ed utre.
Vammi lontana, e, vedi, non t’accoglia
venirmi avanti, se il tuo cor non frangi
135ed in un mar di lacrime si scioglia !
Piangi, non aspettar piú tempo, piangi!
Vivo son io, non pascomi di morte.
Fa’sol che l’indurata voglia cangi,
ché della grazia io t’aprirò le porte! —