La moglie saggia/Appendice

Appendice

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Atto III Nota storica
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APPENDICE.

Dalle edizioni Paperini e Bettinelli.

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L’AUTORE

A CHI LEGGE1.


L
A Moglie Saggia è il vero titolo che conviene alla presente Commedia, quantunque la prima volta che io la feci al Pubblico rappresentare, altrimenti la intitolassi. Negli anni due precedenti all’uscita di questa mia, eransi vedute in Venezia altre Commedie di varj Autori collo stesso titolo in fronte, onde per evitare l’equivoco e la confusione di quelli che del titolo fanno capitale grandissimo, uno ne immaginai per la Piazza, ed un altro riserbato ne ho per la stampa. Quella Commedia dunque che videsi per dieci sere di seguito la prima volta in Venezia, e aveva per titolo: Il Trionfo della prudenza in Rosaura Moglie amorosa, è quella stessa che dal Bettinelli nel tomo sesto della imperfettissima sua edizione dicesi impropriamente: La Moglie Amorosa; e che da me: La Moglie Saggia s’intitola. Nè credasi che per desio d’oppormi soltanto a chi vuol fare della roba mia il Proto, ricusi l’epiteto d’Amorosa, quantunque bene le convenisse; no certamente, che anzi ringrazierei la sorte, s’ella avesse fatto cadere le opere mie nelle mani di chi meglio intendesse il valore dei termini e la distinzion dei caratteri. Quello di Moglie Amorosa vedesi espresso in altra Commedia mia, che ha per titolo La Buona Moglie, poichè trionfando in quella l’amore soltanto e la sofferenza, donna essendo di basso rango e di poco spirito, non sa far altro che amare, piangere e querelarsi, con una pazienza tale che può in una lavandaia più che in una dama verificarsi.

La Contessina Rosaura è amorosissima, è vero, per suo Marito, ma nell’amore non istà tutto il merito della sua virtù. Ella è saggia, e colla prudenza sua conducendosi, sa compatire sino ad un certo segno il Consorte, ma sa ancora cercar i mezzi per deviarlo da un’amicizia pericolosa, e sa valersi della di lui [p. 502 modifica]medesima crudeltà per renderlo svergognato e pentito. L’amore da per se solo non è capace di tanto, senza l’ajuto della saviezza, ed essendo di questa bella virtù il trionfo, giustamente di Moglie Saggia il titolo le si conviene.

Tutte queste parole ho dovuto farle per cagione del mio graziosissimo Correttore2, il quale me ne farà gettare altrettante per occasione delle tre prime Scene dell’Atto secondo, da esso impiastrate in questa Commedia mia, nella edizione ridicola Bettinelliana, in carattere corsivo stampate.

Non dico che cotai Scene sieno tanto inutili quanto quella ch’egli ha voluto cacciar per forza nel Cavalier di buon gusto3, ma benissimo se ne potea far a meno. Tuttavolta averà egli ritrovato in un mio manoscritto le tre suddette Scene abbozzate, perchè lasciate da me le Maschere in libertà di farle a loro piacere, ed egli esattissimo oltremodo in questo, se non in altro, si è creduto in debito di comporle. Avrà preso lume, per farle, dai Commedianti, ma siccome a dir vero codeste tre Scenette all’improvviso fatte riuscirono sempre male, il povero galantuomo è rimasto ingannato. Ecco che io le ho scritte, come intendo che far si debbano. Non dirò già che sieno codeste mie più elegantemente distese, e di migliori frizzi e di sali più spiritosi forite, poichè mai non sarebbemi venuto in mente il novissimo lazzo, onde Arlecchino spazzando la camera dà sul capo a Brighella la scopa, prendendolo per un ragno; nè mai avrei avuto bastante spirito per far ridere, dicendo pirlar per parlare, e chiamando insalata la padrona che acconciasi alla tavoletta, perchè l’insalata si concia e si mette in tavola.

Ecco quanto evvi di buono e di raro nelle tre Scene suddette. Tutto il resto sono parole inutili affatto, se non che Brighella accenna dover dare una lettera alla Marchesa, ed Arlecchino la fa venire per prenderla.

Le Scene o non s’hanno a fare, se sono inutili, o hanno da contribuire all’intreccio, quando si fanno, o all’intenzion dell’Autore. Perchè Brighella recasse alla Marchesa una lettera del suo Padrone, [p. 503 modifica]non eravi necessità di farlo sceneggiare coll’Arlecchino; e per la sola ragione di far vedere questo ridicolo Personaggio, molto meno doveva farsi, perchè l’Arlecchino allora piace, quando ha giusto motivo d’agire, e reca noja piuttosto qualunque volta venga ad interrompere inutilmente l’intreccio.

Che però, quantunque dicessi io non essere le tre suddette Scene opportune, e che poteasi fare senza di esse, pure, impegnato a doverle scrivere, ho procurato non solo di renderle dilettevoli, ma di farle credere necessarie.

Eccone la ragione ed il modo. Per tutto il corso della Commedia, trattasi dell’amicizia del Conte Ottavio colla Marchesa Beatrice, e vedesi il forte impegno del loro attacco, e le conseguenze che ne derivano. Non si era però mai toccato il punto, se la parzialità della Donna fosse del tutto disinteressata, e se il Cavaliere, oltre gli strapazzi alla Moglie, desse anche all’economia dei tracolli.

I Servidori sono quelli per ordinario che hanno il segreto di simili confidenze, e le propalano con il tempo, e nelle loro conversazioni si cambiano le notizie e pongono in ridicolo i Padroni loro. Utilmente dunque ho impiegato io le tre Scene, toccando in esse, così di passaggio (per non trattenermi soverchiamente in una materia un po’ troppo critica), che il rango nobile di queste due persone che si frequentano, non li sublima niente affatto anche nell’articolo dell’interesse.

Oh (mi dirà taluno) perchè tai Scene non le hai tu scritte a principio? Perchè talor per la fretta io lasciava alle Maschere la libertà di parlare a talento loro, e perchè mi lusingava che non si distaccassero dal proposito mio parlando. Ma non cesserò mai di esclamare esser un ardir senza esempio, volere interpretare l’intenzione altrui sulle Scene abbozzate, e avventurarsi a scriverle ed a stamparle, senza saper più che tanto. Credo però che il Bettinelli se ne sia a quest’ora pentito, e si ricordi non averlo io senza ragione avvertito nel mio Manifesto4, che alla fine del Salmo si canta il Gloria.

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA5.

Arlecchino.

Sia maledetto el far sta vita! No se pol dormir, no se pol bever, no se pol magnar, che sempre bisogna esser in faccende. Adesso gh’ho da spazzar la Camera. Anemo, Arlecchin. Za bisogna farlo (si mette a spazzare cantando): l’è mo che se no la sarà spazzà pulita, ghe sarà tanto strepito, che no ghe ne xe tanto in t’un mercà da donne. La patrona la xe una bestia, e se la vede un sporchezza, gramo mi. Oh, adesso che tira via qua una scarpìa (alza la scopa per levare una ragnatela). Ma no gh’arrivo gnanca. Se podesse co un salto chiapparla (salta, ed abbassando la scopa, la dà sulla testa a Brighella).

SCENA II.

Brighella e detto.

Brighella. Uh! uh! No ti ghe vedi? M’at tolto per un ragno?

Arlecchino. Oh paesan, compatissime, perchè son in faccende, e se no fazzo presto e pulito, la patrona me coppa.

Brighella. Me n’accorzo che ti xe in faccende, perchè ho battù e gh’ho chiamà, e no ti m’ha sentio, onde me son resolto de vegnir avanti.

Arlecchino. Vot gnente, paesan?

Brighella. Ch’ho una lettera da dar alla siora Marchese.

Arlecchino. Da qua, che ghe la darò mi.

Brighella. No posso dartela, perchè ghe l’ho da consegnar in man propria.

Arlecchino. Ma no faremo gnente, perchè adesso la patrona la xe come un salata. [p. 506 modifica]

Brighella. Come una insalata? Cossa diavolo distu?

Arlecchino. Sì ben, come una salata, perchè sèntime, caro ti, la salata no se mettela in tola e la se conza? Mo anca ella la xe alla tola, e i la conza.

Brighella. Eh matto. Va là, vàghelo a dir.

Arlecchino. Mo se te digo che no se ghe pol pirlar.

Brighella. No se ghe pol parlar, ti vol dir. Ma co te ghe dirè, che son mi, e che gh’ho da dar una lettera a nome del me patron, so mi che la me riceverà.

Arlecchino. Co l’è cussì, vado. (entra)

Brighella. Povera la mia patrona! Che bella vita che ghe fa far el me patron per causa de sta siora Marchesa, che xe la so favorida! Nol pol veder la muier, el la maltratta, el ghe fa mille despetti, e a st’altra qua mille finezze. E sì la ghe corrisponde con delle insolenze. Ma n’importa, da questa se tol tutto, ma dalla muier guarda el cielo ch’el sentisse una mezza parola che no ghe piase. S’el voga per la Marchesa, col vien a casa l’è un diavolo, no ghe pol viver nè la patrona, nè la servitù.

SCENA III.

Arlecchino e detto.

Arlecchino. Oh, ghe l’ho dito, e adesso la patrona vien.

Brighella. No te l’oio dito, che co la sentirà che son mi con una lettera del Conte me patron, la me riceverà subito?

Arlecchino. Mo cossa diavolo gh’ali insieme, che tutto el dì i cria, e po i se corre drio un con l’altro?

Brighella. Vovi, camarada. Ieri sera i gh’ha crià, el patron xe rabbioso come un can, e el va smaniando come un matto; e po adesso...

Arlecchino. Oh zitto, che la xe qua.

  1. Questa prefazione uscì la prima volta nel t. IV dell’ed. Paperini di Firenze, l’anno 1753.
  2. Probabilmente l’ab. Pietro Chiari.
  3. Vedasi vol. V della presente ed., pp. 116-7.
  4. Alludesi al Manifesto dell’ed. Paperini.
  5. Questa e le due scene che seguono si trovano stampate in corsivo nell’ediz. Bettinelli, e non appartengono a Goldoni: come si legge nella prefaz. dell’ed. Paperini.