La moglie di un grand'uomo ed altre novelle/Commedie di salone
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COMMEDIE DI SALONE
La contessa Flavia Andorno era simpatica, aveva ventotto anni, quarantamila lire di rendita per dote e non prendeva marito. Ogni tanto ne rifiutava uno. La contessa Flavia leggeva molto, inventava lei la moda, che le signore eleganti imitavano, non andava alle prime rappresentazioni, ma alle seconde, non amava la poesia, non s’imbellettava, non era mai ammalata, viaggiava molto spesso, accettava la corte sino ad un certo limite, non parlava mai di politica, amava più la conversazione degli uomini che quella delle donne, aveva gli occhi bigi, la pelle bruna ed i capelli castani. Era quindi chiamata, a torto a ragione — io non ci metto bocca — una donna di spirito.
Il marchese Ernesto Carafa, idem aveva trentadue anni, una bella testa dalla criniera biondo-fulva, la barbetta fulva aristocratica, sessantamila lire di rendita e nessun indizio di moglie. Egli corteggiava con una certa noncuranza graziosa tutte le signore, ballava quando gli altri giuocavano, non coltivava il genere ballerina, guidava sempre lui i suoi cavalli, non portava fiori all’occhiello, non proteggeva le belle arti, non amava la musica, prestava del denaro ai suoi amici intimi, non aspirava ad essere deputato, amava le montagne come un alpinista platonico, non aveva tendenze letterarie, non scriveva mai lettere di amore, era sempre innamorato e non era mai innamorato. A torto o a ragione, Ernesto Carafa era chiamato un uomo di spirito.
Questi due esseri eccezionali cominciarono naturalmente come cominciano tutti per conoscersi. Poi qualche amica di Flavia le disse: «Quel Carafa è proprio un uomo di spirito, perchè non te lo fai presentare?» E gli amici di Ernesto: «Conosci tu la contessa Adorno? Una donna di spirito, caro». E questi qui, tre, quattro, venti volte, in modo che Flavia n’era seccata, ed Ernesto n’era infastidito. Si videro ad una passeggiata e si guardarono con una curiosità mal celata, come due bestie rare, ma la contessa non iscoprì nulla di straordinario ed il marchese si strinse nelle spalle, per la medesima ragione. Una sera, al San Carlo, nel palchetto della contessa fu presentato il marchese, da un amico: furono scambiate poche parole e delle più semplici, di quelle che non sono nel vocabolario della gente di spirito. Ernesto se ne andò subito, sorridendo ironicamente sulle fame usurpate e Flavia chiese a sè stessa, se doveva aggiungere un nome alla categoria degli esseri inutili e sciocchi, già così larga in mezzo alle sue conoscenze. Così quando s’incontravano, un po’ dappertutto, al teatro, ai circoli, alle feste, alle passeggiate, scambiavano un certo saluto sdegnosetto, senza cercare di avvicinarsi o di conoscersi meglio.
Ma il caso che, lungi dall’essere una persona di spirito, ha estimazioni perfettamente stupide, li fece incontrare e star vicini, per forza, al matrimonio di una cugina di Flavia con un amico di Ernesto. Si rassegnarono a sopportarsi scambievolmente. Ognuno pensò a sostenere bene le proprie attribuzioni, tanto per non sfigurarci: e giù di lì una conversazione a paradossi, a botticine, domande bizzarre, a risposte bislacche, ad assurdità stupende, un fuoco di artificio che finì per istordire i due pirotecnici, per metterli in uno stato di nervosità, fuori delle loro abitudini. «Che uomo spiritoso e antipatico! ma io gli ho tenuto testa» — disse Flavia quando fu sola. «Una donna uggiosa e spiritosa, ma non le sono rimasto indietro» — mormorava il marchese dalla sua parte.
Pure il marchese andò con una certa frequenza in casa della contessa e la contessa lo accolse con una cortese cordialità. Ambedue si erano accorti che la gente dintorno si compiaceva di questa relazione che riuniva l’uomo e la donna di maggiore spirito che vi fossero nella città: si erano accorti dei sorrisetti, dell’attenzione curiosa con cui si cercava di prender parte ai loro colloqui, della premura con cui si divulgava un motto detto da Flavia e Ernesto o viceversa; infine si erano accorti di essere trattati dal pubblico come attori di merito. Avevano essi la coscienza di rappresentare una parte o di dire la verità? Ecco il punto oscuro che io non illuminerò. Ma è sicuro che la commediola continuò, recitata vivamente e con molto interesse. Appartenendo alla poco numerosa classe delle persone di spirito, i due cercavano appunto di fare l’opposto di quanto tutto il mondo faceva. Ernesto aveva a bella prima dichiarato che non avrebbe mai e poi mai fatta la corte alla contessa e la contessa aveva soggiunto che gli proibiva d’innamorarsi di lei, il che è appunto il contrario di fare la corte. Ernesto non mandava mai fiori a Flavia e lei non gli chiedeva mai le sue confidenze, come si usa fra amici. Il marchese non si sentiva mai in obbligo di lodare l’acconciatura, gli occhi, le braccia della contessa e la contessa evitava di parlare di lui con le sue amiche. Sul discorso dell’amore si trovavano di accordo, ne dicevano bene e male egualmente, sfiorando il soggetto, facendovi naturalmente dello spirito. Su quello del matrimonio succedeva lo stesso. Non s’intenerivano mai, non erano mai malinconici o pensierosi. Temevano sempre far del sentimento, come fa la folla. Non si arrischiavano mai nelle discussioni artistiche, non discorrevano mai di poesia. Erano bandite tutte le frasi fatte, i convenzionalismi, le sentenze, le massime, le citazioni classiche, le citazioni poetiche, le frasi da giornalista, quelle che tutto il mondo ripete, perchè tutto il mondo ha principiato a dirle. Non dico nulla dei proverbi: erano rigorosamente proibiti. Prima per un certo tempo, si divertirono a citarli capovolti a costo di far fremer il grande Salomone e quanti altri furono mai raccoglitori di proverbi, ma fu uno scherzo che divenne presto molto comune e lo lasciarono andare. Il marchese era sempre in guardia, temendo di veder comparire sulla bella bocca della contessa un sorrisetto di scherno, per qualche offesa involontaria da lui fatta allo spirito: e viceversa la contessa badava bene alle sue parole, arrossendo di venir presa in un momento di debolezza in cui ella rassomigliasse troppo a un’altra qualunque donna.
Ma per ubbidire troppo alla loro riputazione, Flavia ed Ernesto cominciarono a diventare un po’ noiosi. Vale a dire, non per sè stessi, ma per la gente che li frequentava. Le persone di spirito è naturale che abbiano molte esigenze, è naturale che vivano una vita differente da quella volgare della moltitudine. Esso, per esempio, quando si ritrovavano in un ballo, Ernesto salutava la contessa e parlava con lei un solo momento, faceva un giretto e ritornava a dirle qualche cosa, senza fermarsi mai molto, ma ritornandovi spesso: e dattorno la gente a dire che aveva ragione di fare, poichè ella sola poteva intenderlo. Ballavano spesso insieme, per la medesima ragione, — e gli altri ammiratori della spiritosa contessa rimanevano un po’ male, delusi nella mazurca o nella quadriglia invano sperata. Quando Flavia andava via, il marchese girava un pochino ancora, per le sale, con un’aria annoiata, poi infilava il soprabito e partiva anche lui; perchè già non avrebbe più avuto con chi discorrersela. Al teatro, Ernesto si tratteneva molto più del dovere nel palchetto, poichè è assai comune fare una breve visita alle signore: se qualche misero mortale, sotto la forma di un giovanotto bruno, in marsina, petto di camicia tirato a scagliola e relativo gibus, si presentava alla contessa Flavia; se questo infelice sì, ma sciagurato giovanotto, osava avventurare i soliti complimenti, un risolino impertinente sfiorava le labbra del marchese e una risposta tagliente veniva fuori da quelle rosee della contessa: il risultato era la fuga precipitosa del giovanotto. Correva voce che il marchese Ernesto avesse corteggiato assiduamente la duchessina Cesira Galbiati, una bellissima giovane, alta, dalle forme scultorie, dai grandi occhi giunonici, dai lunghi capelli biondi, una completa fioritura di donna, ma, in fatto d’intelligenza, un’oca di quelle ingenue e coscienziose: ebbene, si dovette supporre che la contessa Flavia avesse scoccato più di un epigramma al marchese, poichè costui cessò subito di ronzare attorno alla duchessina Cesira. Ancora: la contessa ed il marchese si erano serbati il privilegio di molte, di troppe idee strane che non mancavano mai di mettere in esecuzione. Quando tutto il corso delle vetture era alla Riviera di Chiaia, Flavia faceva voltare per l’angolo di Piedigrotta e si faceva scarrozzare pel corso Vittorio Emanuele: Ernesto faceva un circolo, prendeva per Toledo e per Salvator Rosa e le veniva incontro. Nella stagione d’inverno, nel cuore dei divertimenti, delle feste, dei balli, Flavia se ne fuggiva soletta a Sorrento e dopo tre giorni vi capitava Ernesto, annoiato della città. Sulle prime Flavia aveva un giorno di ricevimento, poi lo tolse via, vedendo che tutte le dame sue amiche lo avevano ed anche perchè il marchese si era già burlato dei giorni; il marchese aveva perduta l’inveterata abitudine di andare a caccia, ogni anno, in Calabria. Così, a poco a poco, un certo isolamento si faceva intorno ad essi; il mondo confessava sempre ad alta voce che quei due riunivano tutto lo spirito napoletano, ma sottovoce diceva che era meglio lasciare i due modelli dello spirito, alle prese fra loro. Flavia ed Ernesto non se ne accorgevano, e quando arrivò lentamente il momento in cui si trovarono soli, l’uno di fronte all’altro, sembrò loro una cosa molto semplice. Il pubblico si era un po’ allontanato ma non per nulla è stata inventata l’arte per l’arte.
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Una sera — notisi — di autunno, la conversazione fra quei due languiva, esaurita. Non già che nulla trovassero più da dire, ma un certo senso di stanchezza scendeva sovr’essi. Tutta la sera il loro spirito avea brillato vivacemente e i motti graziosi, le gentili ironie, i cortesi sottintesi, le amabilità mordaci erano piovute senza intermittenza. Ora tacevano. La contessa si distendeva un poco sulla sua poltroncina: era adorabile sotto il quieto lume della lampada; ma il marchese, anche riconoscendo questa verità, aveva il buon gusto di non parlarne. Egli giocherellava con una stecca di madreperla.
— Il matrimonio è una gran bella cosa — mormorò, con una falsa aria di convinzione.
— Pei celibi, sì — ribattè subito la contessa.
E si aggiustò il merletto della cravatta. Ernesto prese un libro dalla tavola, ne lesse il titolo e lo posò di nuovo.
— Sapete che cosa dicono laggiù di noi?
— Non lo so. E non desidero saperlo.
— Allora è segno che debbo dirvelo. Molti nostri comuni amici sono d’accordo nella opinione che noi due siamo persone di troppo spirito per isposarci mai.
— Bah! — fece la contessa, stringendosi nelle spalle.
— Se per provare che ne abbiamo, facessimo tutto il contrario? Che ne dite, contessa? Sarebbe grazioso! — ed aprì il giornale Il Pungolo, per leggere le notizie.
— Grazioso, infatti — rispose lei, cercando con la mano il ventaglio.
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In realtà erano innamorati sino agli occhi, come due persone di spirito che si sono dimenticate del loro cuore.