La miseria di Napoli/Parte II - La ricchezza dei poveri/Capitolo VIII. Monti ed Istituti elemosinieri

Parte II - La ricchezza dei poveri - Capitolo VIII. Monti ed Istituti elemosinieri

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CAPITOLO OTTAVO.

Monti ed Istituti elemosinieri.


Ho passato parecchi giorni nel visitare i Monti di pietà, così detti, che bisogna distinguere in Istituti elemosinieri e Monti di prestiti, i quali senza quest’ultimi posseggono complessivamente una rendita annua di un milione; e mi son domandato: Quanta ne gode il povero?

Si sa che questi Monti ebbero origine nella generale reazione contro l’usura praticata dagli Ebrei. Fu il Padre Bernabò da Terni dell’ordine dei Frati Minori, che prima indirizzo ai ricchi una commovente preghiera di trovare i mezzi per salvare i poveri dalle unghie degli usurai, e i ricchi risposero creando un Banco di prestiti, detto Monte di pietà o Banca della carità. Gl’interessi pagati per i prestiti bastavano appena a coprire le spese del servizio; Perugia fu la prima; Orvieto, Viterbo, Savona, Bologna presto seguirono l’esempio; Roma dipoi, il Piemonte solamente, quando l’interesse in piazza sali al 30 per cento. Gli altri paesi di Europa copiarono questi Istituti molto più tardi, la Germania nel XVIII secolo, la Russia proprio al fine di esso secolo, la Francia nel 1750, ed ora gl’Istituti francesi possiedono un capitale di 30,000,000, [p. 130 modifica]somma uguale a quella posseduta dai 300 Monti della sola Londra. Ma nessun Istituto di beneficenza è più deteriorato dallo scopo suo originale che questi Monti, i quali sono puramente e semplicemente Banchi d’usura. Io so bene che mi si possono dimostrare quante riforme si vennero introducendo nei Banchi principali di Napoli: come poco tempo fa il povero non poteva impegnar la sua roba se non dandola ai sensali, i quali esigevano quasi altrettanto interesse dello stesso Monte; che gl’impiegati si appropriavano e vendevano i pegni; che si defraudavano i proprietarii del di più ottenuto dalla vendita forzata; che ogni specie di abuso fu commesso, e che ora non si permette a un sensale come quelli di salire le scale; che il furto non più esiste; e che le aste avvengono alla luce del sole, presiedute da tre diversi membri dell’Amministrazione, donde la difficoltà grande di un abuso concertato.

Raramente ho visto un Monte tenuto con più ordine e precisione del Monte di Donna Regina. Sopra ogni pacco, numerato e registrato, in quell’immenso labirinto di camere e scansìe, si può in un batter d’occhio metter la mano. Restituendo il pacco, lo si apre, ed il possessore verifica il contenuto. Per dire il vero rimasi attonita del prezzo pagato per cenci e per altri oggetti venduti all’asta. Difficilmente, portati a una bottega, avrebbero essi ottenuto tal somma.

Il sistema che obbliga lo stimatore ad essere responsabile per le somme date su certi oggetti, fa sì che non troppo ragguardevoli siano le somme presta te, ciò che stimola il proprietario a ritirare l’oggetto, [p. 131 modifica]per non perderlo. Ma qui come negli altri Istituti ricordati bisogna cangiare il sistema non rimediabile nei particolari. Le Banche di Napoli, come credo quasi tutte in Italia, esigono l’interesse del 6%, più del doppio di quelle di Londra, e non basta. Si esige inoltre 1%, all’atto di ogni pegno. Verace abuso.

Mentre il pegno di gemme, di oggetti preziosi di oggetti di lusso insomma, commuove poco l’anima, confesso che la miseria di Napoli non mi fu più visibilmente presentata che allo spettacolo della enorme quantità di letti impegnati. Domandai all’impiegato che mi condusse, uomo compito e cortese, se questi letti furono spesso disimpegnati.

«Al più presto possibile, — mi rispose, — perchè bisogna pensare che chi impegna il letto, non ha altro da impegnare, e gli tocca intanto dormire in terra.»

La stessa osservazione si applica a’ così detti metalli rozzi, che sono, per la più parte, utensili di rame o di ferro per la cucina. Con molta accuratezza e precisione il Ragioniere della Cassa di pietà mi ha posto sott’occhio il movimento dei pegni del 76, sia degli oggetti preziosi, sia dei metalli rozzi. Mentre i pegni degli oggetti preziosi rimangono quasi invariabili, ondeggiando tra sei o settemila al mese, quelli dei metalli rozzi crescono e diminuiscono colla inclemenza della stagione. Un po’ d’influenza la esercitano anche le feste: a Natale e a Pasqua, per lo meno, il povero vuol mangiar bene, e benchè sia facile, per chi si siede regolarmente due volte al di a lauta mensa, di criticarlo, sembrami cosa assai naturale. La [p. 132 modifica]media del danaro prestato su questi utensili è di 13 mila lire al mese per i pegni nuovi, 7 mila per i rinnovali, 17 mila per gli oggetti spegnati e rimpegnati; or ciò prova che quella povera gente ritiro gli utensili più volte, e fu obbligata a rimetterli, e ogni volta le toccò di pagare l’uno per cento di nuovo, sicchè ammesso che la pentola o il paiuolo siano stati quattro volte impegnati e spegnati, l’infelice in un anno avrebbe pagato il 10 per cento d’interesse. I pegni consentiti dal Monte di pietà di Napoli, da cui tutti dipendono, ascendono a più di 20 milioni, tra cui le sole pannine figurano per quasi due milioni.

La nuova regola poi che dopo un certo tempo bisogna spegnare per rimpegnare, riesce ad una forzata vendita per moltissimi.

A Roma bisogna farlo ogni anno, a Napoli ogni 10 mesi. Sicchè il Monte di pietà per il povero risolvesi nella più spietata delle istituzioni. Che dire poi di quella infinità d’istituzioni dette Monti per soccorsi a domicilio, e per scarceramento di debitori ec. ec.?

Primo Monte per suffragi a defunti, non che per doti a donzelle povere e soccorsi a mendici.

Secondo Monte per suffragi a defunti, per doti a donzelle povere, soccorsi a poveri ed all’Ospizio di collocamento.

Monte di dotazioni a povere civili donzelle e ceti determinati.

Primo Monte per dotazioni a povere fanciulle del popolo.

Secondo Monte per doti a povere e per prestiti [p. 133 modifica]senza pegno alle infime classi del popolo, Monte per culto.

Monte speciale per doti a povere donzelle e per scuola popolare.

Ormai il carceramento dei debitori accade di rado a cagione dell’obbligo dei creditori di mantenerli in prigione. In quanto al Monte per suffragi ai defunti, la cosa in sè è un vero anacronismo; a questo speciale Monte poi, con 122 mila lire annue di rendita, si permette ancora la questua.

Quello del Purgatorio ad Arco per rendersi più plausibile fa mostra di dar dote ai poveri e soccorsi ai mendici; di dote a donzelle povere si dànno 1400 lire, di elemosina 4250 lire; mentre se ne spendono 6771 nell’amministrazione, 54,000 per il culto. Come spendasi il resto, nessuno lo sa; in tasca dei preti vivi per liberar le anime dei morti! Le stesse tenebre avvolgono l’Amministrazione di Santa Maria Vertecœli, la cui rendita diminuisce annualmente, anche a questa si permette la questua. La rendita inscritta depurata da ricchezza mobile somma a lire 131 mila, di cui 35 vanno per ispese di culto, escluse le Messe. L’Istituto dà 34 mila lire per elemosina; si parla di patrimonii per preti e cappellanìe; ma come, a chi, o con che diritto, s’ignora.

Le doti a donzelle si dànno a capriccio qui come altrove. Mi narrò un Professore napoletano, ora residente a Firenze, che nella famiglia, in cui egli alloggiava, sufficientemente benestante, una delle figlie faceva tutti gli affari di casa, ragazza esemplare; l’altra bazzicava in chiesa a messe mattutine, a ufficii [p. 134 modifica]vespertini, Marta e Maria novelle. A Maria, il Monte detto di Beneficenza dava un sussidio mensuale, a Marta tutto fu negato. Del resto, nè l’una nè l’altra erano in condizione di dovere stender la mano per la carità pubblica.

I Monti di prestito senza pegno, ben diretti, sarebbero provvidenziali, ma in quelli esistenti va via il 60 per cento in amministrazione. In quanto a mantenere un Monte speciale per culto, non si può parlarne senza cadere nel ridicolo.

Un Consiglio provinciale o comunale, che oggi riformasse i singoli Istituti, somiglierebbe all’architetto inteso al ristauro del tetto di una casa, le cui fondamenta sono scosse, i muri crollanti, le travi cadenti. Tutti i Luoghi Pii, tutte le opere di beneficenza son fuori di stagione; non solamente, non servono più ad alleviare i mali e le sofferenze umane, ma diventarono fonte di nuovi mali, e servono ad accrescere la miseria. Nè ci vengano a parlare del rispetto dovuto alla volontà dei testatori. Lord Bacone definisce questi legati:

«Il dono di ciò che non è nostro, ma che è divenuto proprietà di un altro».

Tommaso Hare, che ha studiato e ponderato molto l’argomento, dice:

«Ogni generazione dev’essere aiutata da una legge, e invitata dal sentimento di trasmettere alla posterità tali Istituti, che possano sollevare il carattere, arricchire l’intelletto, ed accrescere la potenza dell’uomo. Ma nessuna generazione deve imporre sulle generazioni successive l’obbligo perpetuo di [p. 135 modifica]amministrare in modo prescritto quei frutti della terra, per produrre i quali ci vuole il lavoro delle generazioni nuove. Portate davanti a questa pietra di paragone, tutte le Fondazioni dette di Carità, ond’è coperta l’Inghilterra, sono viziose in teoria e in pratica.»

Lord Brougham dice, «che a nessuno deve esser permesso di far legati che possano danneggiare la società.» Egli concederebbe la massima autorità alle Corti giudiziarie per sentenziare su tutti i legati di beneficenza.

A me pare che accettando come principio che tutti i legati di beneficenza furono dai legatarii destinati ad alleviare le sofferenze dell’umanità, mantenendo fermo questo scopo generale si rispetta benissimo la volontà dei testatori, senza prender nota dell’oggetto speciale, a cui tali intenzioni caritatevoli furon dirette.

È stato detto e ridetto che Corpi morali non devono possedere beni stabili, perchè non possono amministrarli. Difatti, se fabbricati, gli architetti, gl’ingegneri per riparazioni e costruzioni consumano gran parte della rendita; se fondi, ora la gragnuola, ora la pioggia, ora l’arsura, serve di scusa ad infidi amministratori di mostrare le diminuzioni delle rendite. Nelle molte gite nei sotterranei di Napoli, se chiedevo il nome del proprietario della più lurida fra le luride abitazioni, ero sicura, in risposta alla mia domanda, di udire: l’Albergo dei Poveri, l’Ospedale degl’Incurabili, o qualche altro pio Istituto. E le mura sfasciate, e le scale pericolanti, ed i tetti che non proteggevano gl’inquilini dalle intemperie, non iscompagnavansi mai [p. 136 modifica]da pigioni esorbitanti, e queste dalla fiscalità nella esazione.

Ma visto che la conversione delle proprietà immobili in rendita offre un vasto campo ai disonesti ed agli speculatori, il Municipio progressista e il Governo riparatore possono andar d’accordo sui modi più adatti per utilizzare ed economizzare ogni cosa posseduta, o cespite di rendita; e mentre si stanno combinando i modi, devesi studiare e concretare un progetto di legge per regolare il pauperismo in Italia in guisa da sollevare più efficacemente resistente miseria, ma con tutte quelle cautele insegnate dall’esperienza delle altre nazioni per impedire che la miseria prodotta da cause diverse, di cui molte transitorie, non si tra sformi in un pauperismo cronico e crescente.

Nel grazioso opuscolo di Emilio Morpurgo intitolato: I Prestatori di danaro al tempo di Dante, si dànno molti importanti ragguagli intorno all’avversione degli uomini buoni e grandi di tutti i tempi all’usura.

Il grande Alighieri, egli scrive, ch’è l’osservatore più acuto ed in uno il giudice più intemerato de’ suoi tempi, non serbò il silenzio sopra questa pagina secreta del passato. Dalle serene regioni degli affetti, dalle miserande lotte di fratelli che straziano il bel paese, dalle virtù o dalle colpe di coloro che potevano appellarsi alla violenta ragione della spada, egli discende bene spesso fino al popolo. Il suo canto non è l’epopea d’eroi divinizzati, ma bensì la rivendicazione animosa dei diritti dell’uomo.

Tutte queste turbe d’oppressi passano dinanzi al suo sguardo, ed egli le raccoglie sotto le grandi ali [p. 137 modifica]della sua poesia per eternarne la memoria, i dolori e le speranze. Questa spaventosa apparizione della miseria popolare, che mai non si dilegua di mezzo agli uomini, sembra posarsi davanti a lui pure: essa lo guida a raffrontare il passato al presente; lo invita a dipingere con incantevole sorriso la semplicità degli antichi costumi, lo infiamma d’ira generosa contro l’avidità dei contemporanei; ed anche in mezzo a tenebre che potranno esser diradate soltanto da tardi studii e da lontane generazioni, anche in mezzo ad errori che nemmeno oggidì sono dimenticati, egli sembra mirare al grande problema della ricchezza sociale.

Così l’usura, in quell’epoca stessa di onnipotente sovranità religiosa, è per lui ben più che una colpa denunciata dalla Teologia; egli la combatte sic come dissolutrice dei vincoli fraterni che dovrebbero tenere congiunti tutti gli uomini; egli disprezza con quest’intendimento la gente nuova e i súbiti guadagni. In questa grande emancipazione ch’egli vede compiersi sotto a’ suoi sguardi e che, colla divinazione dell’ingegno, presente più gagliarda nell’avvenire, egli sembra detestarla siccome una forma di civile tirannia, più terribile forse d’ogni altra, perch’essa snerva e demoralizza le vittime. Così narravasi che, sul cadavere d’un usuraio, Sant’Antonio proferisse queste parole: Dove è il tuo tesoro, ivi è il cuor tuo, — e la tradizione popolare, si pronta ad accogliere ogni fatto che abbia il prestigio del maraviglioso, racconta che il cuore si rinvenne ancor caldo fra i mucchi di danaro. [p. 138 modifica]

Dante si arresta egli pure davanti a questa colpa del suo secolo; ed accettando, come tutti i suoi con temporanei, la preponderanza della Teologia, chiede al maestro come usura offende la divina bontade. Virgilio epiloga allora con l’usata austerità il dogma sociale del Medio Evo, che non era diverso da quello di Roma pagana; riprova siccome opera non naturale ed irreligiosa il trar guadagno dai prestiti; e chiarisce il concetto in questi versi:

.... perchè l’usuriere altra via tiene,
Per sè natura e per la sua seguace
Dispregia, poichè in altro pon la spene.

Una persona che ha mezzi di assicurarsi della verità, mi fa a questo paragrafo le seguenti osservazioni:

«Quando ella parla del Monte di pietà, assicura che sia facile l’impegnare senza ricorrere ai sensali. Si disinganni. Necessità legislativa o regolamentare non ce n’è, e non ce n’è stata mai. Ma siccome i sensali sono conosciuti e forse, e senza forse, spartiscono cogl’impiegati, trovano subito accesso e sono subito sbrigati; laonde chi non ha tempo da perdere in aspettare il comodo del lento ed affaccendato impiegato, è sempre costretto moralmente a ricorrere ai sensali. E tanta è questa difficoltà d’impegnare al Monte, che a Napoli brulica un lombricaio d’impegnatori clandestini non autorizzati dalla Questura, oltre gli autorizzati che prestano a pegno coll’interesse di un soldo per lira alla settimana, e stipulano un mondo di negozii. Ed io ci ho conosciuto (ora è morto) il padre [p. 139 modifica]di un Brigadiere di Pubblica Sicurezza, persona, nel resto, proprio di buonissimo cuore.»